***LA DITTATURA DELLE PROLETARIE***

PARTE VII

LA SITUAZIONE DELLE DETENUTE IN RELAZIONE AL NOSTRO PROGRAMMA FEMMINISTA PROLETARIO SOVIETICO.

“Che hai fatto?”
“Niente”
Con la DITTATURA DELLE PROLETARIE le carceri verranno abolite. Tuttavia, al momento, si tratta di un ambito, quello dell’esecuzione penale e delle persone detenute, estremamente articolato e il sottoinsieme della detenzione femminile ancora di più che non riusciremo a cancellare con la sola forza del nostro programma ma esclusivamente nel corso della guerra di classe. Riteniamo che la detenzione femminile rappresenti il punto di partenza di qualsiasi critica radicale del carcere tout court. Necessariamente, in questo primo paragrafo, esuleremo da una critica generalizzata del sistema penitenziario per entrare nel merito della situazione attuale, utilizzando concetti come “trattamento” “osservazione scientifica” “rieducazione”, etc., solamente per elaborare un piano femminista proletario intermedio che possa essere portato avanti da subito per attenuare il problema.

(i)

“Che hai fatto?”
“Niente”
Con la DITTATURA DELLE PROLETARIE le carceri verranno abolite. Tuttavia, al momento, si tratta di un ambito, quello dell’esecuzione penale e delle persone detenute, estremamente articolato e il sottoinsieme della detenzione femminile ancora di più che non riusciremo a cancellare con la sola forza del nostro programma ma esclusivamente nel corso della guerra di classe. Riteniamo che la detenzione femminile rappresenti il punto di partenza di qualsiasi critica radicale del carcere tout court. Necessariamente, in questo primo paragrafo, esuleremo da una critica generalizzata del sistema penitenziario per entrare nel merito della situazione attuale, utilizzando concetti come “trattamento” “osservazione scientifica” “rieducazione”, etc., solamente per elaborare un piano femminista proletario intermedio che possa essere portato avanti da subito per attenuare il problema.
Iniziamo con il dire che tale problema riguarda soprattutto la detenzione femminile e che questa rappresenta la parte che inficia completamente il tutto, mostrandoci l’inefficacia e l’ingiustizia dell’esecuzione penale detentiva anche per i maschi proletari e sottoproletari. Essa disvela al suo interno, nelle celle, e a ben vedere anche al suo esterno, laddove si decide per le detenute, la mancanza e l’inadeguatezza di una rappresentanza politica delle femmine proletarie e sottoproletarie che possano portare avanti azioni per sé stesse: di genere e sulle più basilari esigenze quotidiane.
Se è vero che all’interno del carcere le detenute proletarie e sottoproletarie hanno dei vissuti amplificati, in termini di intensità di emozioni o di assenza di emozioni, ma anche i problemi esterni, fuori dalle celle e dagli altri spazi di detenzione, in un’istituzione totale come il carcere, si amplificano e acuiscono. Tratteremo nei primi due paragrafi di una sola parte delle detenute proletarie e sottoproletarie, la più ampia in termini numerici: le detenute per reati comuni: ladre, rapinatrici, spacciatrici, prostitute, zingare, tossiche, straniere, evidenziando come ci siano differenze enormi nelle loro condizioni di vita anche in base all’istituto penitenziario dove sono ristrette, perché purtroppo il sovraffollamento “voluto e imposto”, porta ad un’assenza di rispetto dei livelli di prestazione primari che dovrebbero essere garantiti, tra i quali anche la fornitura idrica, per esempio.
Il confronto con il vissuto detentivo maschile proletario e sottoproletario, che andrà per lo più a dimostrare che l’impostazione data dal nostro ordinamento penitenziario alla vita detentiva, proprio perché strutturato nella stessa maniera per maschi e per femmine sia in realtà, e proprio per questo, nettamente peggiore per le femmine, non intende santificare le carceri maschili: il nostro obbiettivo è fortemente abolizionista. PER TUTT*. Come si vedrà, l’ambito della detenzione femminile potrebbe essere adatto per una qualsiasi sperimentazione abolizionista definitiva e, per il momento, attenuativa.
Gli istituti a custodia attenuata sono una rarità in Italia, ne esistono per tossicodipendenti (ICATT), e solo i maschi, e per madri con prole (ICAM), tentativo di superamento delle aberranti sezioni nido all’interno degli istituti femminili.
Per quanto l’esperienza delle ICAM sia senz’altro positiva, evidenzia subito che la necessità di una detenzione “diversa” viene colta dal legislatore solo quando la femmina proletaria e sottoproletaria si manifesta come madre; non viene presa in considerazione come tossica, ma soltanto come madre, e sì perché l’ultima legge varata specificatamente per le donne detenute, la Legge 40/2001, cosiddetta “Legge Finocchiaro” è infatti riservata alle detenute madri.

Anche a livello grammaticale il femminile è residuale, derivazione: “Carcere” è una parola che al singolare è di genere maschile, solo al plurale femminile; non è l’unico nome che si comporta in modo anomalo a livello grammaticale, ma nel caso specifico questa anomalia riflette l’anomalia di un sistema pensato e tarato quasi esclusivamente al maschile, la dimensione femminile appare quando si declina la parola al plurale, dopo, per eccezione e dobbiamo farne il nostro punto di forza. Non giustifica affatto la scarsissima attenzione che si riserva alla femmina detenuta rispetto al maschio il fatto che il numero delle femmine detenute rispetto ai maschi in percentuale rimanga sotto il 5% da sempre. Esiste nell’ordinamento penitenziario il principio di differenziazione/individualizzazione del trattamento, ma è una differenziazione che non opera in base al genere, ma solo rispetto al grado di giudizio, al tipo di reato, ecc. Andando a ritroso nel tempo, emerge fortemente come la femmina proletaria e sottoproletaria sia sempre stata considerata criminale non solo per il mancato rispetto delle leggi, ma anche a seguito della sua condotta morale: ora, qualsiasi persona è stata fin qui, in qualche modo, costretta a raffrontarsi con norme morali implicite od esplicite, processi di soggettivizzazione attivi fin dall’infanzia nella famiglia e che continuano a lavorare subdolamente anche in età adulta contrastando la sua autodeterminazione, ma è solo la femmina proletaria e sottoproletaria che, da sempre, viene sanzionata con il carcere anche solo per condotte che sostanzialmente afferiscono alla sfera di genere e che non vengono considerate “normali” e “naturali”. Esulando dall’ambito carcerario, se pensiamo al diritto all’aborto per esempio, vediamo come questa scelta sia ancora sanzionatissima in modi diversi, pur esistendo leggi, frutto di battaglie politico-sociali, che la tutelano. Cesare Lombroso, che ha dettato i temi e gli orientamenti della criminologia moderna, titolava il suo primo testo sulla donna criminale: ”La donna delinquente, la prostituta, la donna normale”. Una successiva sua edizione: “La donna delinquente”, vede in copertina una donna contornata da maiali. Quanto disprezzo ha da sempre il capitalismo patriarcale per la femmina proletaria e, soprattutto, sottoproletaria! Tanto da definire un frame fortemente moralista entro il quale viene sistematicamente considerata la femmina nella criminologia, non stupendoci affatto che la prospettiva “scientifica” e positivista sia la più dura in questo senso. Ancora prima della detenzione “morale”, provvedimenti come il foglio di via per le prostitute e il manicomio in cui si chiudevano le femmine “scomode”, rendono immediatamente evidente come la condotta morale della femmina, e solo della femmina, sia stata oggetto trasversalmente nei secoli di una particolare attenzione sanzionatoria, in particolare per quanto riguarda il controllo della sfera di genere e riproduttiva. Questo si inserisce in una condizione di pressione borghese e patriarcale molto ampia - naturalmente non riservata alle sole detenute -, che persiste anche ai giorni nostri, e che vede la femmina proletaria e sottoproletaria non solo punibile perché immorale, ma anche perché le si attribuisce un destino biologico e nessuna chance di autodeterminarsi. Non solo ma la sua base biologica e psichico-biologica è considerata più debole di quella del maschio, più corruttibile, ai limiti dell’imputabilità in sé e per sé: l’imputabilità nel diritto penale esiste solo in presenza della capacità di intendere e di volere ed è alla base del “doppio binario”, - ossia il coesistere di esecuzione penale e misura di sicurezza, per cui se una persona non è imputabile ma ritenuta pericolosa può essergli comminata una misura di sicurezza, anche detentiva, come gli ex-OPG e adesso le REIMS -, anche nella legislazione minorile odierna. Quindi, di fatto, alla femmina veniva riconosciuta una “capacità di intendere e di volere” pari a quella di un ragazzino (vigeva la cosiddetta “infirmitas sexus”, parzialmente abolita con la Legge 1176 del 17 luglio 1919, “Norme circa la capacità giuridica della donna”).
LA CRITICA RADICALE DELLA DETENZIONE FEMMINILE E’, DUNQUE, LA CONDIZIONE SINE QUA NON PER L’ABOLIZIONE DEL CARCERE PER TUTT*. SOLO CON LA DITTATURA DELLE PROLETARIE, NEL CORSO DELLA GUERRA DI CLASSE FEMMINISTA, SI POTRA’ TROVARE LA SOLUZIONE A UN PROBLEMA CHE NESSUNO FINORA, SE NON IN TERMINI DI PRINCIPIO, HA RISOLTO.

(ii)

Il carcere è un luogo di violenti e rischiosi condizionamenti, ha dei limiti costitutivi che si amplificano con il tempo ed il risultato è quasi sempre un’implosione piuttosto che un’esplosione come ci auspicheremmo, come vedremo. La “rieducazione carceraria” è basata sull’”osservazione scientifica della personalità” (art. 13 e seg. ordinamento penitenziario) ed è un concetto che affonda le sue radici teoriche nel positivismo lombrosiano. Tale osservazione, di fatto, in cattività avrà un grado di fallacia massimo se deve fornire predizioni sul comportamento della femmina proletaria e sottoproletaria all’esterno ed essere la base per l’ottenimento dei benefici di legge. Quindi si tratta già in partenza di un sistema di esecuzione penale del tutto basato su fondamenti errati, si tratta di un gigante mostruoso dai piedi d’argilla e tanto varrebbe scegliere ad estrazione quali persone possano essere ammesse ai benefici premiali. Partendo da questa doverosa premessa, facciamo pure che sia davvero utile, la domanda è: di quale rieducazione hanno bisogno le femmine proletarie e sottoproletarie?
I percorsi rieducativi intra-murari sono strutturati nella stessa maniera per maschi e femmine e vertono, fondamentalmente, sulla presa di responsabilità rispetto al reato, sul disconoscere una condotta di vita illegale, etc. Una parte fondamentale è la conoscenza da parte dell’operatore che lo avrà in carico, del detenuto: la cosiddetta osservazione scientifica della personalità. Come può un’osservazione essere uguale nel metodo per un maschio e per una femmina? Quello che differenzia fortemente i generi, nel caso delle/dei detenut*, è il grado e la facilità d’emersione del vissuto drammatico dal profondo della persona. La minore percentuale di donne che entrano in carcere può dirci tante cose, la più evidente è che la donna arriva molto meno alla commissione di atti criminali, per i più disparati motivi (e non, come diceva la criminologia storica, perché più stupida, debole, infantile). Ma, avendo esperienza dei vissuti delle detenute, non può non emergere come in quel 5% si assommino abusi, violenza, inconsapevolezza, senso di colpa, che dota quel 5% di un peso specifico di drammi molto, molto, più alto che nel 95% maschile. E’ come se quel 5% rappresentasse tutte le sofferenze delle femmine in quanto femmine, in primis la sopraffazione maschile patriarcale. Molte delle condanne per omicidio sono molto ridotte per le femmine, essendo in via giudiziaria spesso accertato che l’exploit omicida deriva da abusi lungamente ripetuti, in genere da parte del marito.
Non è facile verificare a livello statistico come le femmine proletarie e sottoproletarie arrivino al crimine per disperazione, coercizione, tossicodipendenza (anche da farmaci), una tossicodipendenza derivante nella stragrande maggioranza dei casi da una necessità di anestetizzarsi rispetto agli abusi subiti in ambito familiare e non, abbandoni ad ogni livello, degrado, emancipazione mancata.
“Che hai fatto? Niente” è l’emblema dell’atteggiamento che le detenute hanno nei confronti della relazione d’aiuto non solo in ambito carcerario: non si fidano, ed è un comportamento comune che riguarda chi ha subito abusi. Perché la stragrande percentuale di femmine detenute viene da un vissuto non già atipico, d’abbandono o semplicemente violento, come può succedere agli uomini: i loro vissuti sono grandemente atipici, grandemente abusanti, grandemente violenti, spesso costellati da stupri. La violenza che ricevono non è relegata al periodo dell’infanzia o dell’adolescenza: tendono a ricercare la persona abusante, che prima è stato il padre, poi sarà il fidanzato o il marito, o anche un’altra femmina. Gli abbandoni che sperimentano sono totali e l’abbandono diventa una costante di vita. Emblematica è l’immagine del giorno dei colloqui al maschile: l’area di ricevimento è stracolma di gente, mentre al femminile, quasi il vuoto. La detenuta tace, nasconde, è aggressiva, “una tossica” detto in modo sprezzante, cattiva. Le detenute sono “cattive”. La donna abusata è cattiva, le si dà una condizione, le si affibbia un tratto di personalità. La cattiveria presunta delle detenute è un alibi. Un alibi più o meno conscio per il personale educativo, che dispensa da una vera e propria pedagogia, sono donne “da tenere a bada”, “ché tanto sono irrecuperabili”, “entrano ed escono”, ormai il carcere è “casa loro”, “stanno meglio dentro che fuori”, dentro, in cattività, appunto. Nella migliore delle ipotesi, la relazione tra educatrice, portatrice obbligata (l’obbligo, anche se non fosse di matrice culturale, proviene dall’istituzione totale stessa) di una cultura borghese e quindi sostanzialmente lombrosiana, convinta dell’efficacia del trattamento penitenziario, e detenuta, soprattutto sottoproletaria, si ammanta di un maternage freddo e falsato, in cui nessuno si trova a suo agio: non l’educatrice, la quale non riesce ad instaurare una vera relazione d’aiuto e che finirà probabilmente manipolata; non già la detenuta, che non vuole una matrigna o che comunque trova anacronistico quell’interessamento, residuale, ipocrita, inutile. Il reato è devianza dalla norma, ma i reati femminili sono più spesso frutto non tanto di un disconoscimento o di un’interiorizzazione di norme asociali (mio padre rubava, io pure perché questo è l’esempio classico) come succede per gli uomini, quanto di una fuga dalla mancanza di norme altrui, mancanza che si è riversata sui loro vissuti, sui loro corpi, sui loro figli, spessissimo tolti o addirittura mandati in adozione. Come potrebbe la dittatura delle proletarie con un soviet ben formato fare fronte OGGI a questa stratificazione di sofferenze di genere? Intanto, quello pubblico fallisce. Fallisce sul nascere quella sorta di magistralità femminile che dovrebbe discorrere con le femmine proletarie e sottoproletarie di loro stesse (nelle infinite declinazioni dell’essere donna) in favore di un approccio disgustosamente moralistico e dunque non diciamo empatico, ma neanche sensibile. Fallisce perché l’obiettivo educativo non è chiaro e non può esserlo: essendo un lavoro sull’identità di genere che spetterebbe a collettivi o soviet e non allo Stato, un lavoro sull’abuso e sull’autostima che è estremamente complesso e difficilmente affrontabile all’interno di un carcere. Le detenute, come già detto, si ripiegano su sé stesse, non esternano facilmente, non si fanno convincere. Si isolano non solo da loro stesse e dalle altre, molto più spesso di quanto avvenga negli istituti maschili, diventando le più fragili e di nuovo vittime di altre detenute. Ribaltare l’implosione delle femmine detenute, liberare quell’energia e quella forza in senso sovversivo significa allora eliminare completamente l’idea di detenzione femminile e sostituirla con l’idea di riappropriazione di sé stesse, riscoperta dell’autodifesa, dell’autodeterminazione e dell’auto-organizzazione di soviet appositi dove elaborare gli abusi ed abbandoni subiti per essere LIBER* di camminare a testa alta. Un rovesciamento delle idee sulla detenzione femminile è necessaria non solo per abolire le carceri, ma anche per una critica radicale che abbia il coraggio di definire una reale pratica rivoluzionaria dell’intera vita associata, per liberare le forze immense che per ora si volgono soltanto in negativo sulle femmine proletarie e sottoproletarie.
LO STATO FALLISCE NELL’AIUTO ALLE FEMMINE PROLETARIE E SOTTOPROLETARIE CHE SI SONO PERSE E CHE LO SONO PER ESSERE STATE ABUSATE. NO ALL’OSSERVAZIONE SCIENTIFICA DI PERSONALITA’ PER OTTENERE BENEFICI DI LEGGE. LIBER* TUTT*. FUOCO ALLE CARCERI!!

(iii)

“La responsabilità penale è personale.
L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato [cfr. art. 13 c. 4].
Non è ammessa la pena di morte.”

L’art 27 della Costituzione è frutto di un lungo e affascinante dibattito tra i Costituenti. I sopravvissuti al fascismo avevano subito la carcerazione politica, il confino, ma d’altro canto bisognava inibire qualsiasi forma di ritorno a esso. Emblematico l’intervento dell’ex presidente Leone, che propose la pena di morte proprio come estrema ratio per rigurgiti fascisti, e fu pesantemente contrastato un po’ da tutti gli altri, con sommo spirito democratico e di ricomposizione sociale, sancito poi dalla successiva amnistia Togliatti per tutti i reati politici. Questa intensa mediazione ha dato luogo all’art.27, che per quanto possa sembrare esemplare, contiene una parola che potenzialmente può ribaltare tutta la civiltà che esprime. Quella parola è “tendere”.
A causa di questo “tendere”, l’Ordinamento Penitenziario, che regola in base ai principi dell’art 27 l’esecuzione penale e la vita delle/dei detenut*, stabilisce, in particolare con l’art 41bis, che “In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza , il ministro di grazia e giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto”.
E’ l’articolo che permette l’esistenza del cosiddetto “carcere duro” per imputati e detenuti per reati associativi, di tipo mafioso od eversivo-terroristico, e fu introdotto all’indomani della strage di Capaci, in cui perse la vita il magistrato antimafia Giovanni Falcone.
Permette cioè che un certo numero di persone, vivano, anche per un considerevole numero di anni, in una condizione del tutto “affine alla tortura”, per garantire che gli stessi non abbiano contatti esterni e conseguentemente non perpetuino la loro attività mafiosa, eversiva, e terroristica anche dal carcere, a fronte di un’efficacia riguardo alla prevenzione dei crimini suddetti davvero impercepibile.
Permette anche un’ulteriore appesantimento del 41 bis, chiamata 41 bis speciale, che è il risultato dell’applicazione congiunta di 41 bis, 14 bis (sorveglianza speciale intramuraria) e art. 72 (isolamento diurno).
A fronte di numerose sollecitazioni, provenienti anche da organismi europei e nazionali, a difesa dei diritti delle/dei detenut*, e del fatto che la Magistratura di Sorveglianza (che da Ordinamento dispone, controlla ed è responsabile dell’effettiva custodia del detenuto oltre che dell’esecuzione penale interna ed esterna) abbia espresso da sempre forti perplessità su provvedimenti che si trova obbligata ad applicare, che sono di fatto in contrasto con la sua funzione costituzionale, arrivando spesso ad erodere l’eccessiva afflittività delle disposizioni su singoli condannati al 41 bis, il DAP ha emesso una circolare (circolare n. 3676/612 del 2 ottobre 2017 ) che si esprime però, con la ratio dichiarata di omogeneizzare il trattamento in tali circuiti d’esecuzione, in direzione contraria ai richiami e alle preoccupazioni, arrivando a normare rigidamente anche, ad esempio, la quantità di foto di familiari ammesse all’interno della cella (una).

L’esistenza del 41 bis e del 41 bis speciale (viene negata anche la luce) è di fatto un precedente pericolosissimo ed è un attentato continuo alla costituzione.
E’ eversivo e fascista dal profondo, perché non permette un’idea di esistenza nello Stato per i condannati, non permette loro di vedersi al di fuori della pena, al di là della pena;
è terroristico nell’attuazione, perché mina costantemente il senso di identità attraverso l’isolamento e l’annullamento dei contatti umani oltre, e non da ultimo, attraverso la costrizione fisica, la privazione anche di luce, oltre che di contatti con il mondo esterno;
è mafioso nel modo in cui il legislatore annichilisce le osservazioni nazionali ed internazionali, recependole ma muovendosi in senso contrario (il famoso sorriso mafioso che in realtà rappresentava la condanna a morte) e rendendo afflittive e senza logica preventiva le norme di vita quotidiana.
Il 41 bis sembra essere diventato, nell’opinione diffusa, non solo per gli addetti ai lavori, un baluardo irrinunciabile contro i reati più gravi, quelli che minano la democrazia, i reati che suscitano emergenza, perché potrebbero distruggere lo stato democratico.
Paradossalmente, la forza (apparente) che mostra lo Stato nel governare questa emergenza, evidenzia invece la propria debolezza, se è vero, come dimostrò un italiano che ricordano molto bene in Norvegia (lo citò il premier norvegese per commentare la pena, da noi considerata lieve, di 15 anni per la strage di Utoya) ma che noi abbiamo da tempo disconosciuto, Cesare Beccaria, che uno stato è tanto più forte quanto riesce a ricondurre i suoi figli “che sbagliano” all’idea di Stato, allora nel 41 bis questa debolezza, sì che emerge.
il 41 bis non è carcere duro, il 41 bis è una tortura psico-fisica che può protrarsi anni, attuata su persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno condanne a vita e che quindi starebbero già pagando il loro debito con la società. La ratio che verte sull’impedimento a proseguire l’attività criminosa o sullo spingere alla collaborazione ha mostrato da tempo la sua inconsistenza.
In Italia non esiste il carcere duro, esiste un regime di tortura che riguarda detenuti autori di reati particolarmente gravi, un regime che è regolato dalla recente circolare DAP 7 ottobre 2017, n. 3676/6126 , circolare che proprio prima di introdurre norme afflittive e degradanti, si raccomanda con i direttori degli istituti:
“I Direttori degli istituti penitenziari, attesa la delicatezza della materia e la necessità di evitare eventuali impugnazioni dovute a vizi procedurali, provvederanno ad impartire opportune disposizioni affinché all’atto della ricezione del decreto di applicazione, proroga, integrazione o revoca del regime speciale, siano assicurati i seguenti adempimenti (…)” (seguono consigli su come redarre e presentare gli atti), proprio per scongiurare l’azione correttiva e umanizzante della Magistratura di Sorveglianza.
Esiste un regime di tortura nelle carceri italiane e i cittadini non ne sono a conoscenza, perché tra emergenze, restringimenti ulteriori dei diritti, circolari, opinione pubblica e politica che nella sua quasi totalità concorda con l’esistenza di questo regime e concorda in modo molto sicuro, quello che non emerge è la voce dei sottoposti al regime di tortura, persone che sono, ed è bene ribadirlo, in esecuzione penale e lo sarebbero anche senza regime di 41bis, la stragrande maggioranza di loro per tutta la vita.
QUEL “TENDERE” ALLA RIEDUCAZIONE, UN’ESPRESSIONE COSI’ DELICATA E CHE SEMBRA COSI’ DOLCE E DEMOCRATICA, NON HA MAI APERTO LA STRADA ALLA PREVENZIONE DI CRIMINI ODIOSI, MA AL CONTRARIO, A QUALSIASI TIPO DI VENDETTA LO STATO DEMOCRATICO VOGLIA PERPETRARE SULLE PERSONE, IN NOME DI UN ORDINE E DI UNA SICUREZZA FASCISTI, NON CERTO IN NOME DEI COSTITUENTI, CHE SE AVESSERO AVUTO LA CAPACITA’ DI PREVEDERE IL FUTURO, SICURAMENTE AVREBBERO DEPENNATO QUEL “TENDERE”, ALL’UNANIMITA’!!