Della Miseria dell'Ambiente Creativo.

Considerata nei Suoi Aspetti Economico, Politico, Psicologico, Sessuale e Specialmente Intellettuale e di Alcuni Mezzi per Porvi Rimedio.

Libero deturnamento da parte dei membri dell'Associazione Psicogeografica Romana e dell’Ufociclismo.

"Rendere l’imbarazzo per la creatività ancora più imbarazzante denunciandola pubblicamente"

Occorre, senza paura di sbagliare, affermare che in Italia colui che si adopera alla creatività è, dopo i poliziotti, i preti e gli studenti, l'essere più universalmente disprezzato. Le ragioni per cui è disprezzato è vero che sono spesso false ragioni, il prodotto dell'ideologia dominante, ma le ragioni per cui è effettivamente disprezzabile e disprezzato dal punto di vista rivoluzionario vanno sviscerate perché fino ad ora inconfessate. I difensori della “rivoluzione” accompagnata dal “senso della monnezza” culturale sanno però riconoscervisi. Essi capovolgono questo disprezzo invidioso in un'ammirazione compiacente: così anche la maggior parte degli impotenti intellettuali della sinistra radical chic vanno in deliquio davanti alle pretese dei creativi e delle loro opere, perfomance o concerti. Si contendono gelosamente l'appoggio "politico e materiale" dei creativi. Noi indicheremo le ragioni di questo interesse per i creativi e mostreremo come esse partecipino in modo conciliante, alimentandola, alla realtà dominante del Nuovo Capitale e le denunceremo una a una: la critica radicale per la creatività passa necessariamente per una totale rottura del suo incantesimo su tutto l’ambito del precariato, da quello lavorativo a quello di genere.

Occorre, senza paura di sbagliare, affermare che in Italia colui che si adopera alla creatività è, dopo i poliziotti, i preti e gli studenti, l’essere più universalmente disprezzato. Le ragioni per cui è disprezzato è vero che sono spesso false ragioni, il prodotto dell’ideologia dominante, ma le ragioni per cui è effettivamente disprezzabile e disprezzato dal punto di vista rivoluzionario vanno sviscerate perché fino ad ora inconfessate. I difensori della “rivoluzione” accompagnata dal “senso della monnezza” culturale sanno però riconoscervisi. Essi capovolgono questo disprezzo invidioso in un’ammirazione compiacente: così anche la maggior parte degli impotenti intellettuali della sinistra radical chic vanno in deliquio davanti alle pretese dei creativi e delle loro opere, perfomance o concerti. Si contendono gelosamente l’appoggio “politico e materiale” dei creativi. Noi indicheremo le ragioni di questo interesse per i creativi e mostreremo come esse partecipino in modo conciliante, alimentandola, alla realtà dominante del Nuovo Capitale e le denunceremo una a una: la critica radicale per la creatività passa necessariamente per una totale rottura del suo incantesimo su tutto l’ambito del precariato, da quello lavorativo a quello di genere.

Tutti i tentativi finora fatti per salvare i creativi hanno tralasciato l’essenziale. Non superano mai il punto di vista delle sue specializzazioni (poesia, prosa, pittura, scultura, teatro, performance, cinema, design, moda, etc.) e restano quindi fondamentalmente errate, perché commettono la leggerezza di non considerare che all’inizio tutti i prodotti della creatività sono il risultato di un’immensa cooperazione planetaria e impersonale delle idee priva di separazioni. Il feticismo dei fatti maschera la categoria essenziale e i particolari fanno dimenticare il processo totale. Tutto si dice di questo ambiente, salvo quello che effettivamente esso è: miserabile e sotto il comando del Nuovo Capitale perché ogni idea è costretta a diventare obsolescente alla velocità di una merce qualsiasi. I critici come Bourriaud e Perniola nei loro saggi hanno cercato di rianimare il cadavere. Tuttavia i creativi restano disarmati di fronte alle poche verità parziali che questi critici sono riusciti a dimostrare. Nonostante la loro buona volontà radicale, tali critici ricadono nella morale dei professori, nell’inevitabile etica agambeniana di una democratizzazione reale per mezzo di una inclusione senza mezzi di tutti i creativi nel sistema, vale a dire: la creatività che “ricrea” il sistema stesso gratuitamente. Mentre i loro discepoli, come Giorgio de Finis, si illudono di risvegliare il mondo dell’arte e compensano la loro amarezza con un guazzabuglio di ospiti e letture pieni di fraseologia rivoluzionaria sorpassata.

Il comando sotto il Nuovo Capitale impone a tutti i creativi una passività generalizzata. Il loro è un ruolo precario e vacillante che tuttavia produce continuamente le condizioni più conservatrici del tempo libero e del suo business. Quella del creativo è soltanto un’attività forzata dalla mancanza di altre opportunità superiori che riproduce, rovesciate, tutte le caratteristiche identitarie del lavoro salariato, con l’unica differenza peggiorativa che nella stragrande maggioranza dei casi non è pagata. Inoltre, è totalmente separata dalla rivoluzione in processo, sia collettiva che individuale e vi gioca con garbo e gentilezza per non allarmare troppo polizia e carabinieri. Il creativo è un essere diviso tra una condizione di esaltazione e una condizione di frustrazione nettamente distinte, il cui limite non sarà mai superato. La sua coscienza bipolare gli permette di isolarsi in una sorta di élite dall’umore instabile e che mistifica il proprio avvenire e si incanta davanti all’unità mistica che gli offre un presente al riparo dalla storia e dai suoi urti. Il processo di rovesciamento della verità ufficiale, cioè economica, è estremamente semplice da smascherare ed è duro quindi guardare in faccia il mondo dei creativi senza vergognarsi per loro quando rievocano i peggiori stereotipi degli anni ’80 e dei ‘90. In una società del rischio e della crisi la condizione normale del creativo oggi è un’estrema povertà psichica e materiale, ma a loro basta essere presi per geniali dagli inetti e ricevere molti like e cuoricini nei social. Senza la casetta comprata da papà e mamma non potrebbero vivere. Provenienti per di più dell’ 80% da strati sociali il cui reddito è superiore a quello di un precario di prima generazione, il 90% di essi dispone di un reddito inferiore a quello di un precario di terza generazione. La miseria del creativo resta al di qua della miseria prodotta dalla crisi, della nuova miseria del lavoro precario. In un tempo in cui un numero sempre crescente di individui si emancipa via via da pregiudizi morali e dall’autorità familiare precocemente senza entrare mai del tutto nei rapporti di sfruttamento, se non molto tardivamente, il creativo si prepara all’evento auto-sfruttandosi a tutti i livelli in uno stato di “minorità prolungata”, irresponsabile e docile. Se la crisi costante dovuta alla sua attività inconcludente e non remunerativa lo mette in parte in contrasto con la sua famiglia, accetta però volentieri di essere trattato come un bambino dalle istituzioni che regolano e apprezzano la sua vita quotidiana sfruttandola per eventi che fanno solo il gioco di politici del cazzo: gratis. Quando non gli cagano in bocca, gli pisciano di nascosto nel culo. Così il creativo, sfuggito - così egli crede – alla logica dello Stato e della Noia, raggiunge un orgasmo impotente nella ricerca di un’originalità e genialità che possano soddisfare il suo sadomasochismo mal giocato. Il cristianesimo insito in questi bestemmiatori di professione giustifica ideologicamente il loro sacrificio esistenziale sull’altare vuoto dell’“avanguardia” o dell’”avanspettacolo”.

La colonizzazione dei diversi ambiti sociali trova nel mondo dei creativi la sua espressione più disgustosa. Il transfert sui creativi della cattiva coscienza di tutti nasconde la miseria e l’asservimento generalizzati. Ma le ragioni su cui si fonda il nostro disprezzo per il creativo vanno oltre. Non riguardano soltanto la miseria reale, ma anche la sua compiacenza verso tutte le miserie, la tendenza morbosa a consumare tempo libero in modo degradato beatamente senza mai mettere in questione il senso di civiltà. Se vuoi il degrado devi distruggere la civiltà e non barcamenarti tra il “varrei ma non posso” o il “posso ma non voglio”, perché sono tutte scuse della propria impotenza. Tutti coloro che criticano il lavoro per una diffusione della creatività generalizzata, una “società della creatività”, si lavano la coscienza parlando di reddito di autodeterminazione (malposto già in quanto tale), salvo spaventarsi di fronte all’inattività dei creativi, aspetto che imbarazza molto i più politicizzati al momento di reclamare, come ripiegamento tattico, un reddito sganciato dalla prestazione all’interno del Nuovo Capitale.

Le esigenze del Nuovo Capitale impongono alla maggior parte dei creativi la condizione di precari e non c’è scampo almeno fino al quarantesimo anno di età. Di fronte al carattere miserabile di questo avvenire lontano che lo “risarcirà” della vergognosa miseria della sua vita, il creativo preferisce volgersi alla sua situazione presente senza pensare al futuro e abbellirla di prestigi illusori. Ma anche questa compensazione è troppo miseranda perché possa aggrapparvisi: il futuro non lo salverà dalla mediocrità inevitabile, tranne nei rarissimi casi di coloro che tradiranno, di fatto, i loro amici e compagni togliendo loro quasi il saluto o non rispondendo più sui social e alle mail. Allora il creativo si rifugia in un presente irrealmente vissuto. Simile allo schiavo stoico, il creativo si crede tanto più libero quanto più strettamente lo legano le catene all’originalità. Come la sua nuova famiglia, il sistema dell’Arte e della Musica, si considera l’essere sociale più “autonomo” mentre dipende direttamente e congiuntamente dai due sistemi più potenti del sistema cui fanno riferimento: il mercato dell’arte e quello dei localari. È il loro bambino educato e riconoscente. Seguendo la stessa logica del bambino sottomesso partecipa a tutti i valori e tutte le mistificazioni del sistema e le concentra in sé. Le illusioni di un tempo, imposte alla categoria dei piccoli leader rivoluzionari, diventano ideologia interiorizzata e trasmessa attraverso la massa dei futuri artisti senza un euro in tasca o di successo ma diventati nel frattempo laidi.

Se la miseria sociale del passato ha prodotto i sistemi di compensazione più grandiosi (le religioni), la miseria marginale dei creativi si è trovata come unica consolazione le immagini più scalcagnate della società dominante, la ripetizione burlesca dei suoi prodotti più banali. Il creativo italiano, in quanto individuo ideologico arriva troppo tardi a tutto credendosi avanti a tutti. I valori e le illusioni che fanno l’orgoglio del suo mondo chiuso sono già condannate come illusioni insostenibili, da lungo tempo ridicolizzate dalla storia delle avanguardie e dell’avanspettacolo. Poiché raccoglie qualche briciola del prestigio dell’Arte, della Musica e dell’Avanspettacolo del passato il creativo è ancora contento di farne parte. Troppo tardi. L’insegnamento tecnicizzato e specializzato che s’impone è così profondamente degradato (rispetto al vecchio livello della gloriosa cultura generale) quanto il suo livello intellettuale al momento in cui vi accede, perché le forze dominanti, cioè il sistema economico, esigono una produzione massiccia di creativi pieni di informazioni ma incapaci di pensare. Che l’Arte, la Musica e l’Avanspettacolo siano diventate istituzioni dell’ignoranza, che la cosiddetta “cultura di strada” si vada decomponendo al ritmo della produzione in serie di gallerie e critici apposta per essa, che tutti questi galleristi e critici siano degli imbecilli, la maggior parte dei quali susciterebbe le risa di scherno di qualsiasi pubblico avvertito, il creativo fa finta di ignorarlo e continua ad ascoltare o ripetere le gesta rispettosamente dei suoi maestri, con la volontà cosciente di perdere ogni spirito critico per meglio piombare nell’illusione mistica di essere diventato un genio, uno che si dedica con tanta originalità all’arte e alla musica con la speranza che gli sarà riconosciuto prestigio e successo. È la menopausa dell’intelligenza. Tutto quello che oggi succede di creativo nei locali italiani (i peggiori sono i circoli Arci), nelle gallerie, nei musei, in certi centri sociali, sarà condannato nella futura società rivoluzionaria come cicaleccio e degrado inutile e poco avanzato, socialmente dannoso per chi vuole davvero divertirsi fuori controllo. Ma già fin d’ora il creativo fa ridere. Non si rende neanche conto che la storia sta trasformando il suo ridicolo mondo in un territorio chiuso e senza vie d’uscita.

La “crisi” del Nuovo Capitale rimane oggetto di un dialogo tra sordi di differenti arti. Essa traduce soltanto le difficoltà di un adeguamento dei creativi alla trasformazione generale dell’apparato produttivo alle porte della quarta rivoluzione industriale. I residui delle vecchie ideologie libertarie si banalizzano nel momento in cui scompare la sua reale base sociale proletaria. È stato possibile per i creativi considerarsi indipendenti nell’epoca del capitale liberoscambista e del suo stato liberale che lasciava loro una certa libertà marginale. Ma di fatto dipendeva strettamente dai bisogni di quel tipo di società: dare a una minoranza privilegiata, quella più raffinata, il privilegio della creatività generale e arrivare, in alcuni casi, a far parte degli artisti di successo e, quindi, della classe dirigente da cui, in fondo, spesso, proveniva già. Sono perciò ridicoli i critici nostalgici, amareggiati di aver perduto l’antica funzione di cani da guardia dei futuri artisti di successo, in cambio di quella molto meno nobile di cani da pastore che guidano, secondo i bisogni tattici del sistema, le sfornate di creativi precari senza prospettive. Essi oppongono i loro arcaismi alla tecnicizzazione dell’Arte, della Musica e dell’Avanspettacolo, continuando imperturbabili a spacciare le briciole di una cultura della creatività a futuri specialisti che non sapranno che farsene. Più seri e perciò più pericolosi sono i genietti dell’estrema sinistra i quali rivendicano l’accelerazionismo, cioè un adeguamento in fondo anche della creatività ai bisogni del Nuovo Capitale. L’arte e la musica, adorne ancora di prestigi anacronistici, vorrebbero si trasformassero da dispensatrici della “cultura generale” al servizio delle masse, in industrie di allevamento accelerato di precari. Lungi dal contestare questo possibile processo storico che subordinerebbe direttamente uno degli ultimi settori che ancora si può salvare alle esigenze del sistema capitalistico, i nostri accelerazionsiti protestano contro i ritardi della sua realizzazione positiva. Sono i paladini della futura Arte e Musica tecnicizzata (ma non techno-logica) che già si annuncia in qualche luogo.

Il sistema del tempo libero, il suo business e i suoi servi, ecco i nemici da combattere. Ma questi problemi passano sopra la testa del creativo, nel cielo dei suoi maestri, e a lui sfuggono completamente: la totalità della sua vita e a maggior ragione della vita gli sfugge. Data la sua situazione economica di estrema povertà psichica e materiale, il creativo è condannato a una condizione di sopravvivenza che non ha nulla di invidiabile. Ma, sempre soddisfatto di sé, eleva la sua miseria banale a “stile di vita” originale: il miserabilismo e la bohème. Ora la “bohème”, lungi dall’essere una soluzione originale, non è mai autenticamente vissuta che dopo una rottura completa e irreversibile con l’ambiente artistico e musicale più banale. I suoi sostenitori tra i creativi (e tutti si piccano di esserlo un po’) non fanno altro che attaccarsi a una versione mediocre e declassata di quella che è nel migliore dei casi una mentecatta soluzione individuale che merita il disprezzo dell’ultimo degli schiavi leccatori di stivali. Questi “originali” continuano ad avere i comportamenti erotico-amorosi da cesso nelle Arci, riproducendo le più banali trasgressioni propagandate dalla cultura di massa del Nuovo Capitale. La predisposizione a diventare un artista o un musicista purchessia dice molte cose sull’impotenza del creativo. Nel margine di libertà individuale permesso dal Nuovo Capitale e malgrado l’uso meschino che egli fa del proprio tempo, il creativo ha in realtà paura della reale avventura e le preferisce uno spazio-tempo quotidiano ristretto, a suo uso e consumo per la felciità di localari e di certe comunità chiuse ed elitiste del centro-socialismo reale.

Senza esservi costretto il creativo lavora auto-sfruttandosi, un ipocrita che disprezza i lavoratori salariati lamentando raccomandazioni o le loro fatiche come i peggiori qualunquisti, senza mai impegnarsi in un colloquio o in un concorso decisivi seriamente, che prende tutti coloro che lavorano sul serio come poveri individui in gabbia o carrieristi. Non sapendo che prima o poi toccherà loro fare i conti con la pensione minima. Sottoscrive tutte le scissioni della società e va poi a versare lacrime sull’incomunicabilità, l’insuccesso e la mancanza di denaro nelle varie assemblee a porte chiuse che organizzano. È così stupido e così disgraziato che si affida in massa e spontaneamente al controllo degli psico-poliziotti. Ma la miseria reale della vita quotidiana del creativo trova una immediata compensazione fantastica nella sua principale droga: la merce culturale. Nell’arte, la musica del passato e l’avanspettacolo il creativo ritrova naturalmente il suo ruolo di discepolo rispettoso; prossimo al luogo della produzione senza potervi penetrare del tutto - l’accesso al santuario gli resta vietato se non per farsi un selfie con le reliquie – il creativo scopre la “cultura postmoderna” con atteggiamento di ammirazione passiva. In un’epoca in cui l’arte è morta rimane il principale frequentatore di teatri, gallerie, musei e cineforum. Partecipa a questa giostra senza riserve, senza secondi fini e senza distacco. È il suo elemento naturale. Se circoli Arci e  certi centri sociali che non fanno che propinare continuamente cultura banale non esistessero, il creativo li avrebbe inventati. Egli verifica perfettamente le analisi più banali della sociologia americana del guerrigliamarketing: consumo ostentato, affermazione di una differenziazione di merci culturali in fondo identiche nella loro nullità. E quando i figli degli “dèi” operaisti come Bifo che producono o organizzano il proprio teatro culturale si incarnano sulla scena sono il loro principale pubblico e il frequentatore ideale.  Assiste in massa alle loro esibizioni più oscene; chi altro riempirebbe le sale quando per esempio i curati delle varie parrocchie vengono a propinare pubblicamente i loro dialoghi-fiume (settimana del pensiero cosiddetto post-operaista, riunioni di intellettuali xenofemministe) o quando i relitti della letteratura contemporanea italiana vengono a constatare la loro impotenza nei vari eventi indipendenti di quartieri fighetti come il Pigneto?

Incapace di passioni reali, il creativo non può che deliziarsi di concerti privi di passione della crema marcita dei musicisti più in voga che più che suonare sembrano ripetere il loro spettacolino demente sempre uguale all’infinito. Ignorante com’è il creativo prende per novità “rivoluzionarie” garantite da un’etichetta discografica i più insipidi surrogati di antiche ricerche, effettivamente importanti al loro tempo, edulcorate a fini del mercato di nicchia. Il problema è di preservare sempre la sua reputazione di originale anche nei suoi comportamenti quotidiani. È fiero di comprare le edizioni originali e fare affari con vinili che non sapendo come ascoltare si accontenterà di consumarli con le orecchie. La sua musica preferita resta quella specializzata che orchestra le tossicomanie. Ne accetta docilmente gli ordini pubblicitari dello Stato, ordini rovesciati che ne fanno il termine di riferimento standard dei suoi gusti. E così che crede di partecipare ancora a un mondo postmoderno finito da un pezzo e di sguazzare nell’arte vera. Il creativo più di ogni altro è contento di essere vagamente politicizzato all’estrema sinistra. Ma partecipa alla politica svogliatamente e finisce per riprodurre il potere al quale vorrebbe solo idealmente contrapporsi. Si appropria ancora di tutti i ridicoli brandelli di una estrema sinistra annientata dagli anni ‘90. Il creativo lo ignora ancora, mentre il Potere lo sa benissimo e i proletari in modo confuso. Partecipa con fierezza risibile alle iniziative più ridicole che attirano talvolta soltanto lui. La falsa coscienza politica si trova in lui allo stato puro e il creativo costituisce la base ideale per le manipolazioni più rivoltanti di galleristi e curatori. Questi programmano dispoticamente le sue opzioni di originalità: ogni impennata o velleità di “indipendenza” rientrano docilmente dopo una parodia di resistenza in un ordine che non è stato mai messo in questione. Il creativo crede di andare più in là, come alcuni individui che si definiscono rivoluzionari, mentre non fanno che allinearsi allegramente alla parola d’ordine pontificia: Rivoluzione pacifica. Il creativo è fiero di opporsi agli “arcaismi” di Salvini invocando per scherzo il pugno duro di Stalin, ma non si rende conto di seguire così i vecchi errori del passato che si sono fatti proprio con uno scherzetto simile, i crimini stantii dell’epoca di Togliatti - Garaudy - Kruscev - Mao – Berlinguer - e così la sua vita è ancora più arcaica di un potere che non è più capace di amministrare una società oltre il postmoderno come lo fu effettivamente il nazi-fascismo. Ma questo non è l’unico arcaismo del creativo. Egli si crede di avere idee generali su tutto, concezioni coerenti del mondo che diano un senso al suo bisogno di Agit-prop e di promiscuità. Perciò, vittima di ogni pensiero magico possibile immaginabile, si precipita sul rudere cadente dell’astrologia per adorare la carogna puzzolente di antiche mitologie e si attacca ai rimasugli decomposti preistorici che crede degni di sé e del suo tempo. Si ha quasi vergogna a dirlo ma l’ambiente creativo è, insieme con quello delle anziane signore di provincia, il settore in cui resiste la maggior percentuale di pratiche magiche e, mentre in qualsiasi posto i maghi sono già stati cacciati via, resta la migliore “terra di missione” dove gli sciroccati del pensiero magico continuano a sodomizzarsi con la scusa del 666 nei loro cessi spirituali, ancora fermi a vecchie forme di trasgressione banali.

Certo tra i creativi non mancano persone di livello originale normale. Questi superano senza fatica le miserabili prove di capacità previste per i mediocri proprio perché hanno capito il sistema, lo disprezzano e riconoscono i loro nemici. Essi prendono dal sistema le sue stesse tattiche, quanto esso ha di meglio. Approfittando delle falle del controllo, obbligato dalla sua logica a conservare un piccolo settore come del tutto originale, portano tranquillamente lo scompiglio al livello più alto, infiltrando il sistema stesso: l’aperto disprezzo per il sistema si accompagna alla lucidità che permette loro appunto di essere più forti dei servi del sistema, principalmente dal punto di vista artistico. Le persone di cui parliamo figurano infatti già tra gli artisti di successo. Essi non nascondono a nessuno che ciò che prendono così facilmente dal “sistema dell’arte” è utilizzato per la sua distruzione. Infatti il creativo non può rivoltarsi contro nulla senza rivoltarsi contro la sua stessa creatività e la necessità di questa rivolta si fa sentire certamente con maggiore spontaneità nel precariato reale (e vedremo cosa intendiamo con questo termine), il quale si rivolta spontaneamente contro la propria condizione.

Ma il creativo è un prodotto della società oltre il postmoderno come Nolan e lo psicofarmaco contro la depressione alla ketamina. Il suo estremo bisogno di identità non può essere contestato che attraverso la contestazione di tutta la società. Non è possibile limitare questa critica al campo dei soli creativi:  il creativo come tale si attribuisce uno valore falso che gli impedisce di prendere coscienza della sua spoliazione reale e perciò vive il grado più alto di falsa coscienza. Ma dovunque la società oltre il postmoderno comincia ad essere contestata davvero e i creativi mancano sempre all’appello nel momento opportuno. Non è sufficiente che il pensiero ricerchi la sua realizzazione, occorre che la realtà ricerchi il pensiero. Dopo un lungo periodo di sonno letargico e di controrivoluzione permanente comincia a manifestarsi da qualche anno un nuovo periodo di contestazione, certo più nei social che nella vita reale, di cui sembrano essere portatori soprattutto le femministe, i movimenti di genere e il precariato lavorativo. Ma il Nuovo Capitale, nella rappresentazione che fa di se stesso e dei suoi nemici, impone le sue categorie ideologiche per la comprensione di queste realtà. Esso riconduce ogni processo di contestazione all’ordine biologico, alla famiglia tradizionale, alla repressione delle occupazioni, alla separazione competitiva dei lavoratori. Chiude le verità che annunciano il suo superamento nella cornice ristretta di una novità che propaganda vigliaccamente come illusoria. La rivolta contro l’identità di genere e contro il modo di vivere identitario che è imposto a tutti gli individui è il segno precorritore di una sovversione più vasta che ingloberà l’insieme di coloro che sentono sempre maggiormente l’impossibilità di vivere in queste condizioni se stessi, il preludio della prossima epoca rivoluzionaria. L’ideologia dominante e i suoi dispositivi quotidiani di potere secondo le ben note tecniche di rovesciamento della realtà, riducono questo movimento storico reale a una categoria falsa, ma venendo attaccato per la sua caratteristica fondamentale reale: la rivolta contro l’ “ordine naturale” delle cose, l’idea che tutto si riduca all’Identità. Così si costringe la nuova rivolta, una rivolta che rinasce a ogni generazione, a spegnersi quando si è presi dalla serietà della repressione poliziesca. La “rivolta del godimento” poi è stata ed è ancora oggetto di  una vera inflazione allarmistica dei giornali e dei politici che nello stesso tempo in cui viene repressa la trasforma in uno spettacolo di una “rivolta” possibile solo nell’immaginazione, offerta in contemplazione per ostacolare che la si viva, sfera aberrante - già integrata - necessaria al funzionamento del sistema sociale; se questa rivolta riesce ad essere contro la civiltà non resterà parziale e chiusa nell’apartheid esclusivo della “questione dei generi” come vi sarebbe una questione esclusiva del precariato, una questione esclusiva di nuove forme di convivenza, una questione esclusiva di nuove guerre geo-politiche, etc.. È vero, invece, che c’è un problema del godimento nella società oltre il postmoderno, questo è dovuto al fatto che la crisi profonda di questa società è sentita davvero quasi solo dal movimento LGBTQI  e femminista e non dai comunisti dei consigli. Tipici prodotti di questa società oltre il postmoderno, il movimento LGBTQI è esso stesso oltre il postmoderno, e possono o integrarsi alla società contemporanea incondizionatamente o rifiutarla radicalmente. Quel che deve sorprendere non è che il movimento LGBTQI sia per ora ribelle e sovversivo, ma che gli eterosessuali nemici di ogni alterità siano ormai tanto rassegnati da avviare una lotta senza quartiere e  disperata contro questo movimento. La spiegazione di questo fatto non è mitologica, ma storica: la generazione precedente ha conosciuto tutte le sconfitte e consumato tutte le menzogne della famiglia tradizionale.  

Considerato in sé il movimento LGBTQI rischia di diventare un mito pubblicitario profondamente legato al modo di produzione capitalistico, espressione del suo dinamismo. Questo  illusorio primato è da evitare a ogni costo perché giocherebbe a favore di una ripresa della crisi economico-finanziaria, a seguito della mancanza massiccia di nuovi desideri da impiegare nel tempo libero e nel lavoro su se stessi. Ancora in questo movimento non vi è modificazione sostanziale dei contenuti rivoluzionari, poiché anzi essi si ammorbidiscono e ed evitano quasi sempre lo scontro frontale organizzato, facendo deviare a destra coloro che preferiscono barattare la reale rivoluzione che è sempre contro l’identità con la nostalgia identitaria per un potere sovietico cadaverico: il rossobrunismo. Non solo il movimento LGBTQI avverte questo stato di cose, ma lo esprime teoricamente e praticamente ancora confusamente ma ogni giorno con radicalità sempre maggiore.

A livello superficiale, invece, le femministe di tutti i paesi esprimono con il massimo della violenza verbale apparente il rifiuto di integrarsi. Ma il carattere astratto del loro rifiuto non lascia nessuna possibilità di sfuggire alle contraddizioni di un sistema di cui sono il prodotto negativo spontaneo. Le femministe riproducono il potere che vorrebbero eliminare dalla faccia della terra: esse continuano a desiderare nel privato ciò che combattono nel pubblico, la logica di potere patriarcale. E invece di criticare l’identità passando da un ipocrita e superato il “personale è politico” dovrebbero lanciare slogan anti-identitari come l’ “impersonale è politico”. Esse disprezzano il lavoro, ma accettano di fatto di essere mercificate al contrario delle femministe anni ‘70. Vorrebbero avere tutto quello che la pubblicità esibisce loro, subito e anche se non possono pagarlo. Questa contraddizione fondamentale domina tutta la loro esistenza ed è il cerchio che imprigiona il loro tentativo di affermazione nella ricerca di una vera libertà nell’impiego del tempo libero e del lavoro. L’affermazione individuale e la costituzione di una sorellanza delle donne vanno in cortocircuito:  le loro micro-comunità ricompongono ai margini della società le stesse dinamiche competitive del Nuovo Capitale in cui la miseria ricrea ineluttabilmente una gerarchia all’interno della banda. Questa gerarchia che si può affermare solo nella competizione di status con altre bande isola ogni banda e in ogni banda la donna stessa. Per uscire da questa contraddizione la donna dovrà alla fine lavoricchiare per comprare le merci e a questo punto tutto un settore della produzione è espressamente creato per il suo recupero come consumatrice. Sperimentando sul proprio corpo le merci, esse stesse lo trasformano secondo la logica del Nuovo Capitale in maniera spesso incosciente ancora una volta in una merce. Rinunciando di fatto alla critica rivoluzionaria del Nuovo Capitale. Il consumo smussa la carica rivoluzionaria di queste ribelli e la loro rivolta ricade nel peggiore conformismo. Le femministe sono davanti a un bivio: o la presa di coscienza rivoluzionaria reale contro il patriarcato o l’obbedienza cieca alle dinamiche di competizione tra donne imposte dal Nuovo Capitale.

Le post-femministe radicali che mettono in discussione ogni identità di genere costituiscono la prima forma di superamento dell’esperienza del femminismo contemporaneo, la sua espressione politica più avanzata. Sono nate dal rigetto dei rifiuti dell’identità femminile individuale decomposta in cerca di successo e di una massa di attiviste in cerca di affermazione. La loro dispersione non ha permesso per ora di andare oltre e di accedere a un nuovo tipo di contestazione. Se le creative hanno portato alcune tendenze al gioco ancora molto mistificate accoppiate a un guazzabuglio ideologico, le post-femministe radicali dal canto loro non avevano che la violenza della rivolta testuale, ma chiara e potente. Fin dall’inizio della loro apparizione la differenza tra post-femministe radicali e attiviste femministe contemporanee è apparsa come una rottura indicibile. Se le femministe si sono trovate di colpo sotto la tutela di una piccola classe dirigente sospetta di mantenere il “potere” con le secrezioni vaginali di una ideologia sul genere non all’altezza dei loro comportamenti reali, ciò non si è verificato del tutto nel movimento LGBTQI per la loro concretezza comportamentale e sessuale. Nel tentativo di fare un discorso sui generi avanzato senza conseguenze pratiche, le neo-femministe rappresentano una forma di riformismo e progressismo radicali che rischia di imporsi ovunque. Le post-femministe radicali sono invece il momento dell’ultima rivolta necessaria delle donne contro il Nuovo Capitale e il patriarcato allo stesso tempo, perché agiscono su se stesse con concretezza comportamentale e sessuale. Tuttavia è assolutamente necessaria una rivoluzione ininterrotta per cambiare la vita, la dispersione di tali donne produce una mancanza di incisività per un cambiamento di questo tipo. Le post-femministe radicali pur nella dispersione, non volendo organizzarsi gerarchicamente non si rassegnano ad ogni modo nel privato al patriarcato. Non sono una base politica e sono senza dirigenti, prive di dinamiche di competizione, evitando così di inventare qualsiasi ridicola ideologia del  ”Post-femminismo” (sarebbe un pasticcio creativo-politico ingenuamente preparato con i resti ammuffiti  di una festa fuori controllo che nessuno ha ancora conosciuto), destinata ad essere sconfitta per la passività che implica ogni forma di identità, tranello in cui sono cadute tutte le femministe del secolo.

Disperando di non poter rovesciare il patriarcato, che è in realtà già in ginocchio, disperano delle sole forze di cui sono portatrici, ovvero della speranza di un superamento di cui esiste effettivamente la possibilità. Basterebbe un bel colpo all’inginocchiato. Le femministe, le post-femministe e il movimento LGBTQI sono il motore della società capitalistica e perciò il suo nemico mortale; tutto è fatto per reprimere queste soggettività (i partiti, i sindacati burocratici, la polizia più spesso diretta contro di loro che contro il proletariato, la colonizzazione di tutta la loro vita) perché questi movimenti sono l’unica forza virtualmente pericolosa per il sistema. Ma le post-femministe dovrebbero passare dalla critica testuale del sistema, critica di cui sono prigioniere al suo assalto diretto. Quando in un riot che ha scavalcato i sindacati, i partiti e  i pompieri del movimento si è passati alla violenza diretta. Molti rivoluzionari del garbo e del sorriso sulle labbra sono allora completamente superati dai fatti e nel loro disorientamento non trovano di meglio che denunciare gli “eccessi” e lanciare appelli pacifisti, rinunciando miseramente alle loro idee che si spendono esclusivamente in contesti creativi. Nei social molti sovversivi creativi sono sempre pronti a stare dalla parte di chi sta in strada, ma la loro non è che vaga “anarchia”, soltanto un’ennesima menzogna. I ribelli possono accedere alla critica rivoluzionaria soltanto se si rivoltano contro i social e i dispositivi mobili, unendosi a chi sta in strada. Allora, soltanto a questo modo tali ribelli potranno raggiungere la contestazione autentica di cui hanno già una coscienza precisa anche se virtuale. Se vogliono veramente trasformare il mondo non sapranno che farsene dei social e delle loro rivoluzioni color arancione pilotate dal Nuovo capitale.

Ribellandosi contro l’originalità alcuni creativi hanno con quest’atto stesso messo in questione la società che di tale originalità ha bisogno. Rifiutandosi di farsi integrare precariamente nei settori creativi a cui li destinavano le loro specializzazioni contestano a fondo un sistema di produzione in cui tutte le attività e tutti i prodotti sfuggono completamente ai produttori. Anche se ancora confusamente e per tentativi questi creativi in rivolta sono alla ricerca di una alternativa rivoluzionaria coerente contro la creatività stessa e per un suo superamento. Questi creativi ribelli restano legati in larga misura a un aspetto della crisi: il problema del reddito. Queste piccole équipe di anti-creativi costituiscono la parte più avanzata dell’estrema sinistra creativa ma risentono pesantemente della debolezza e della mancanza di contenuti sovversivi all’altezza dell’epoca che fanno ricadere loro in pericolose contraddizioni. È facile rendere innocua la loro ostilità all’arte, perché spesso sono politicamente ingenui e si nutrono di false speranze su quanto accade realmente nel mondo. L’ostilità astratta al loro ambiente creativo li porta ad ammirare le reliquie dei nemici del passato come il brutalismo. È così possibile trovare in un evento diffuso come l’Art Strike sia la condanna a morte del sistema dell’arte e dell’arte stessa sia la sua capitalizzazione condotta con le più furbe operazioni di guerriglia-marketing dei tempi moderni. D’altronde un evento diffuso così libertario e non gerarchico rischia di cadere lo stesso paradossalmente nell’ideologia della “dinamica delle rotture tra compagni di lotta” come nel caso dei neoisti o nel mondo chiuso della sette, per l’evidente mancanza di contenuto rivoluzionario audace. Parliamo poi del consumo di massa di droga che esprime una miseria reale e la protesta contro questa miseria: è la ricerca illusoria di libertà in un mondo senza libertà, critica religiosa di un mondo che ha superato la religione. È significativo che la droga più dura sia specialmente diffusa tra i ribelli che organizzano e frequentano i rave, focolai di rifiuto ideologico sovversivo ma anche di assurde superstizioni come il 666 e altro pensiero magico marcito del genere. Nella ricerca di un atteggiamento rivoluzionario all’altezza dei tempi i raver fanno lo stesso errore delle femministe, sentendosi la parte più radicale della società non si rendono conto di avere gli stessi interessi di tutti coloro che sono soggetti alla competizione e alla schiavitù della merce.

Ovunque nel pianeta queste esperienze cominciano a produrre le sue forze negative. La rivolta delle post-femminste è particolarmente violenta e le misure poliziesche delle femministe retrograde adottate per contenerle sono disgustose. Siamo tutti informati che una parte delle post-femministe non “rispetta” più l’ordine morale del femminismo (che esiste in Italia soprattutto nella sua forma radical chic più detestabile), si dà a una vita “dissoluta” ispirandosi alle opere di Sade, disprezza il lavoro e non obbedisce più alla psico-polizia. Parallelamente a questa rivolta tenta di farsi strada una contestazione ancora più violenta: piccoli riot e o feste fuori controllo clandestine appaiono e scompaiono secondo le fluttuazioni della repressione poliziesca che portano molto spesso alla chiusura degli unici locali degni di essere considerati. In tale repressione si afferma chiaramente la necessità di chiudere i luoghi della teppa rivoluzionaria e la paura dell’”ineluttabilità” di una rivoluzione della vita quotidiana.

I critici d’arte più avvertiti cercano ora di rendere coscienti e formulare chiaramente le ragioni della loro difesa dell’arte che gli artisti del passato hanno già messo in pratica e in crisi completamente: questa critica ha lo svantaggio contemporaneamente di porsi i problemi reali e di non conoscerne la soluzione.  Mentre negli altri paesi la creatività in certi casi è forse possibile, ma il fine rimane mistificato, in Inghilterra o in Spagna non ci si fa illusioni e si conoscono i suoi fini, li si sfrutta senza troppi scrupoli: la creatività deve inventare le forme del suo superamento e trovare la strada che vi conduce. Così il grido individuale e collettivo che motiva la creatività con le reali mancanze di ogni possesso sulla propria vita e di una vita che è solo possesso della noia e dell’umiliazione quotidiane, diventa, attraverso i contorti filtri della cultura ideologica, anche una “street art” scandita nelle manifestazioni spettacolari della bellezza illegale e vandalistica consolatoria. La verità parziale, cioè la menzogna della bellezza illegale e vandalistica, è ancora quella della ketamina e delle pratiche di stordimento religioso.

La rivolta a parole di una certa area dei centri sociali trova la sua migliore espressione nel dibattito sulle nuove tecnicizzazioni mediali. Ma anche qui si tratta di una critica ancora parziale. Le menti più intelligenti dell’epoca si raccolgono ancora intorno ad eventi come Transmediale, ma eventi del genere sono destinati necessariamente a sgonfiarsi, per il sovraccarico di parole, idee e creatività inconcludenti. Inoltre tra queste mente brillanti ci sono anime belle complici del Nuovo Capitale con il quale vorrebbero istituire una situazione circolare e virtuosa tra rottura e capitalizzazione in cash. Si tratta di una forma anch’essa di arcaismo che non resisterà all’assalto detonante del presente che è sempre futuro in processo. Il loro tentativo di accelerare le tendenze del Nuovo Capitale genererà delle situazioni inaspettate che, alla fine, lo salvaguarderanno e lo salveranno. È necessario che le esigenze di questi ribelli ancora fermi al progressismo tecnologico si allineino con le forze più avanzate della rivoluzione reale, coloro che vogliono i Consigli metropolitani; la vittoria verrà loro soltanto da una prospettiva comune. Il disfacimento del parlamentarismo fornisce un’ulteriore probabilità di realizzare un’azione comune. Le esplosioni che una simile alleanza potrebbero provocare sarebbero di gran lunga più imponenti e grandiose di tutto quello che si è visto negli anni 70. La sommossa post-femminista e LGBTQI da sole non possono che ridursi a un gioco di fronte al rovesciamento del mondo. Soltanto dal coordinamento del precariato, con il quale intendiamo tutti coloro che lottano, dalle questioni di genere fino che quelle lavorative, potrà nascere un vero movimento rivoluzionario in cui si saranno poste le esigenze pratiche del rovesciamento reale del mondo. Tra i paesi industrialmente avanzati è vero che l’Italia è tra i pochi paesi in cui sia già realizzato un tentativo di alleanza del movimento LGBTQ con i comunisti marxisti-leninisti. Tuttavia questa alleanza è stata un insuccesso perché non è arrivata a porsi il problema dell’assalto rivoluzionario ma solo dell’assalto al parlamento. Essa ha combattuto con troppe illusioni il patriarcato e il capitalismo, non avendo mai raggiunto lo statuto di rivoluzione perché troppo legata a un partito, con un programma poco avanzato e non troppa partecipazione. La contraddizione tra un movimento che porta tutti i tratti dell’anti-identità con un movimento identitario come quello comunista marxista-leninista, non si poteva completamente e concretamente spiegare. Si sta ancora cercando di definire con esattezza lo sfruttamento dei generi e di classe come due facce della stessa moneta, ma non si è ancora riusciti a formulare esplicitamente i caratteri fondamentali del capitalismo oltre il postmoderno, la critica della vita quotidiana e la critica dell’identità. Ad ogni modo resta fondamentalmente un’alleanza auspicabile quella tra movimento LGBTQI, femminismo, post-femminismo, accelerazionisti, paladini della rivoluzione tecnicizzata e comunisti dei consigli, questi eredi della migliore organizzazione proletaria anti-burocratica e anti-gerarchica della storia del movimento operaio. È virtualmente il più importante movimento rivoluzionario del pianeta e dovrà costituire centri di discussione e di raccolta della nuova critica rivoluzionaria del Nuovo Capitale.

Creare finalmente le condizioni che rendano impossibile qualsiasi ritorno al passato. Essere rivoluzionari significa camminare al passo con la realtà. La critica radicale del mondo oltre il postmoderno deve avere come oggetto e come obiettivo il pianeta. Deve anche esercitarsi sul suo passato reale oltre che essere futuro in processo, su quello che effettivamente esso è e sulle prospettive della sua trasformazione. Infatti per poter dire tutta la verità sul mondo presente e a maggior ragione per formulare il progetto del suo sovvertimento totale, bisogna essere capaci di rivelare tutta la sua storia nascosta e guardare in maniera totalmente critica la  storia del movimento rivoluzionario internazionale, inaugurato più di un secolo fa dal proletariato dei paesi occidentali, le sue sconfitte e le sue vittorie. Questo movimento volto contro l’organizzazione del vecchio mondo è da lungo tempo finito, ed è fallito.  La sua ultima manifestazione storica è l’esperienza del Rojava. Tuttavia le sue “sconfitte” ufficiali, come le sue “vittorie” ufficiali devono essere giudicate alla luce delle loro conseguenze storiche e la loro verità riscoperta. Possiamo affermare che “ci sono sconfitte che sono vittorie e vittorie più vergognose delle sconfitte” (Karl Liebknecht poco prima di essere assassinato). La prima grande disfatta del potere proletario, la Comune di Parigi, è in realtà la sua prima grande vittoria, perché per la prima volta il proletariato vi ha affermato la sua capacità di dirigere autonomamente e liberamente tutti gli aspetti della vita sociale. La sua  prima grande vittoria, la rivoluzione bolscevica, non è in definitiva che la sua sconfitta più carica di conseguenze. Il trionfo dell’ordine bolscevico concise con il movimento controrivoluzionario internazionale che ebbe inizio con l’annientamento degli Spartachisti da parte della “socialdemocrazia” tedesca. Il loro comune trionfo fu più profondo del loro apparente antagonismo e questo ordine bolscevico è stato soltanto un nuovo travestimento e una figura particolare del vecchio ordine di cose. I risultati della controrivoluzione russa sono stati: all’interno la costituzione e lo sviluppo di un nuovo modo di sfruttamento, il capitalismo burocratico di stato, e all’esterno la moltiplicazione delle sezioni dell’Internazionale detta comunista, succursali destinate a difendere e a diffondere il suo modello. Il capitalismo nelle sue diverse varianti, burocratiche e borghesi, rifioriva nuovamente sui cadaveri dei marinai di Kronstadt e dei contadini di Ucraina, degli operai di Berlino, Kiel, Torino, Shangai e più tardi di Barcellona.

La III Internazionale, apparentemente creata dai bolscevichi per lottare contro i  residui della socialdemocrazia riformista della II Internazionale e raggruppare l’avanguardia proletaria nei “partiti comunisti rivoluzionari”, era troppo strettamente legata ai suoi creatori e ai loro interessi per poter realizzare in un paese qualsiasi la vera rivoluzione socialista. In effetti la II Internazionale era la verità della III. Ben presto il modello russo si è imposto alle organizzazioni operaie dell’Occidente e le loro evoluzioni sono diventate una sola e medesima cosa. Alla dittatura dispotica della burocrazia (nuova classe dirigente) sul proletariato russo corrisponde in seno a queste organizzazioni il dominio di un ceto di burocrati politici e sindacali sulla grande massa dei lavoratori, i cui interessi sono diventati completamente contraddittori con i loro. Lo schifo stalinista ha ossessionato la coscienza operaia mentre il capitalismo, in via di burocratizzazione esso stesso come dimostrato da Bruno Rizzi, ha imitato e risolto a questo modo le sue crisi interne, affermando trionfalmente la sua nuova vittoria che pretendeva eterna. Una stessa configurazione sociale, solo apparentemente diversa, si era impadronita del pianeta e i principi del vecchio mondo continuavano a governare il nostro mondo moderno. I morti ossessionavano ancora il cervello dei vivi. All’interno di questo mondo alcune organizzazioni che si pretendevano rivoluzionarie combattevano solo apparentemente, sul suo terreno, il vecchio ordine attraverso le più grandi mistificazioni. Tutte si richiamavano a ideologie più o meno pietrificate e non facevano in definitiva che partecipare al consolidamento dell’ordine dominante. I sindacati e i partiti politici creati dalla classe operaia per la propria emancipazione erano diventati semplici regolatori del sistema, proprietà privata dei dirigenti che lavoravano alla propria emancipazione e trovavano un loro posto all’interno della classe dirigente di una società che si guardavano bene dal mettere in discussione. Il programma reale di questi sindacati e partiti ripete ancora oggi banalmente talvolta la fraseologia “rivoluzionaria”, poiché il capitalismo stesso si è fatto “ufficialmente” rivoluzionario.

Dove hanno potuto impadronirsi del potere - in paesi più arretrati della Russia - avevano soltanto riprodotto il modello stalinista del dispotismo controrivoluzionario. Negli altri paesi erano il complemento statico e necessario dell’autoregolazione del capitalismo burocratizzato, la contraddizione indispensabile per il mantenimento del suo umanesimo poliziesco. D’altra parte restavano - nei confronti delle masse operaie - i garanti incorruttibili e i difensori senza riserve della controrivoluzione burocratica, i docili strumenti della sua politica estera. In un modo fondamentalmente mistificatore erano i portatori della mistificazione più totale e lavoravano alla perpetrazione della dittatura universale dell’Economia e dello Stato. Per tornare all’attività creativa, essa è  soltanto la caricatura di una caricatura, la ripetizione burlesca e inutile all’interno di un sistema economico divenuto ridicolo e in crisi. La creatività deve a sua volta rompere definitivamente con la sua epoca gloriosa passata e trovare la sua poesia soltanto nell’autonegazione. Gli artisti “risuscitati” che giocano la commedia dell’Arte in gruppetti sinistroidi non sono che il tanfo del passato e non annunciano niente di rivoluzionario. Relitti del grande naufragio della fine delle avanguardie si presentano alle volte come i paladini di una sorta di ortodossia post-situazionista: la difesa dell’IS è insieme l’espressione di una fedeltà illimitata e di una scandalosa rinuncia.

Le correnti di sinistra possono mantenere ancora in vita qualche illusione critica nella disputa su “Trotzkj”, all’interno e all’esterno della IV Internazionale”, dove domina un’identica ideologia “rivoluzionista” e un’identica incapacità pratica e teorica di capire i problemi del mondo oltre il postmoderno. Tanti anni di storia controrivoluzionaria separano questi “rivoluzionisti” dalla Rivoluzione. Si sbagliano perché non siamo più nel 1920, e nel 1920 si sbagliavano già. La dissoluzione di gruppi storici “di estrema sinistra” come “Socialisme ou Barbarie” sta a dimostrare, se ce ne fosse bisogno, che non ci può essere rivoluzione fuori dalla realtà contemporanea, né pensiero contemporaneo scisso dalla critica rivoluzionaria che è tutta da reinventare . Tale dissoluzione fu significativa del fatto che ogni separazione tra questi due aspetti ricade inevitabilmente o nel museo della Preistoria rivoluzionaria ormai esaurita o nella forma contemporanea del potere, occorre rovesciare la formula e affermare “Comunismo o civiltà”.   

Quanto ai diversi gruppetti “anarchici” prigionieri tutti quanti di questo appellativo, non hanno nient’ altro all’ infuori di una ideologia ridotta a una semplice etichetta. L’assurdo insurrezionalismo raggiunge il grado più pazzesco di idiozia e di confusione. Questi individui riescono a non tollerare effettivamente niente, dal momento che non riescono a tollerarsi reciprocamente. La società dominante che si compiace della sua permanente modernizzazione deve a questo punto trovare un interlocutore,  la sua negazione più spettacolarizzata, e lo trova in loro. Le demistificazioni pratiche del movimento rivoluzionario dei Consigli metropolitani sgombrano la coscienza rivoluzionaria dai fantasmi che ossessionano tali individui; la rivoluzione della vita quotidiana si trova di fronte a compiti immensi che deve assolvere: la vita che essa promette deve essere reinventata. Se il progetto rivoluzionario resta fondamentalmente lo stesso dagli anni 90 in poi, questo significa che in nessun luogo le condizioni della rivoluzione sono state radicalmente trasformate. È compito dei rivoluzionari di oggi riprendere il progetto rivoluzionario con un radicalismo e un attitudine anti-identitaria accresciuti dall’esperienza del fallimento delle  precedenti esperienze, per evitare che una realizzazione parziale generi una nuova divisione tra i rivoluzionari.

La lotta tra il potere e i nuovi soggetti rivoluzionari si può condurre soltanto sul campo delle identità, e il futuro movimento rivoluzionario deve perciò abolire nel proprio ambito tutto  quello che può riprodurre atteggiamenti identitari; deve esserne nello stesso tempo la critica vivente e la negazione che porta in sé tutti gli elementi del superamento possibile. Il movimento rivoluzionario è il movimento di superamento di ogni identità e creatività. Le tendenze e le divergenze di fatto devono trasformarsi in problemi di coordinamento se vogliono trovare la strada della realizzazione pratica. La questione del coordinamento sarà la prova del fuoco del nuovo movimento rivoluzionario, il momento decisivo davanti al quale sarà giudicata la praticabilità del suo progetto essenziale: la realizzazione internazionale del potere dei Consigli metropolitani, quale si è venuto configurando attraverso le esperienze delle migliori rivoluzioni del secolo scorso. Questo tipo di coordinamento che dà il potere ai Consigli eccetto il potere su noi stessi deve per prima cosa proporre la critica radicale di tutti i fondamenti della società che essa combatte, cioè: la produzione della merce, l’ideologia del fondamento biologico dei generi, lo Stato, il Nuovo Capitale e le competizioni che impone a tutti i livelli. La scissione tra teoria e prassi è stato lo scoglio contro il quale si è infranto il vecchio movimento rivoluzionario. Soltanto i momenti più alti della guerra di classe hanno superato questa scissione e ritrovato così la loro verità. Nessuna organizzazione ha ancora risolto questo dilemma e lo risolverà. L’”ideologia” rivoluzionaria è sempre al servizio dei padroni, campanello d’allarme che denuncia il nemico nascosto. Per questa ragione la critica dell’ideologia deve essere in ultima analisi il problema centrale del movimento rivoluzionario. Soltanto l‘identità produce la menzogna e questa non può riapparire all’interno di un coordinamento dei Consigli metropolitani che pretende di portare la verità sociale senza trasformarla in un’ennesima menzogna di un mondo fondamentalmente mistificatore. Il movimento rivoluzionario che si propone di realizzare il potere dei Consigli metropolitani deve essere il luogo in cui si delineano tutti gli aspetti desiderabili di questo potere. Perciò deve condurre una guerra a fondo contro la teoria leninista del partito.

La rivoluzione del 1905 e l’organizzazione spontanea dei lavoratori russi nei Soviet era già una critica pratica di questa nefasta teoria. Ma il movimento bolscevico persisteva nel credere che la spontaneità operaia non avrebbe potuto superare lo stadio sindacalista e che era incapace di comprendere la “totalità”. Il che significava decapitare il proletariato per permettere al partito di prendere il comando della rivoluzione. Lenin ha tolto spietatamente la capacità storica del proletariato di emanciparsi con le sue proprie forze e trasformare la parola d’ordine che facciamo nostra “tutto il potere ai Soviet” in  “tutto il potere al partito”, e in effetti “allo Stato”. Allo Stato invece che a uno “Stato” del proletariato in armi destinato a scomparire. Questa è e sarà comunque la nostra parola d’ordine che riprendiamo in modo radicale, liberandola dai secondi fini bolscevichi. O si assume il processo della rivoluzione per guadagnare tutto un mondo o esso non è niente. L’unica forma del potere dei Soviet sarà l’autogestione a tutti i livelli e non potrà essere divisa con nessun’ altra forza. Poiché essa è la dissoluzione reale di tutti i poteri non può tollerare nessuna limitazione (geografica, di genere o di altra natura); gli accomodamenti che accetta si trasformano immediatamente in compromessi e in cedimenti. L’autogestione non deve essere solo il fine, ma il mezzo stesso della nostra guerra, la posta e la regola del gioco, il soggetto e l’oggetto dell’azione e non ha bisogno di nessun altro presupposto.

La critica molteplice del mondo è la garanzia della verità anti-identitaria dell’autorganizzazione rivoluzionaria. Tollerare in una parte qualsiasi del mondo l’esistenza di sistemi oppressivi (perché portano la maschera rivoluzionaria, per esempio) significa riconoscere la legittimità dell’oppressione. Ugualmente, se si tollera l’identità in uno qualsiasi degli aspetti della vita sociale, si riconosce la fatalità di tutte le identità. Non basta essere per il potere astratto dei Consigli metropolitani, occorre dimostrarne il significato concreto: l’eliminazione dell’identità e della produzione della merce.  La logica della merce è la razionalità prima ed ultima della società attuale, è la base della autoregolazione dispotica di queste società simili a quei giochi di pazienza i cui pezzi, in apparenza completamente diversi l’uno dall’altro, sono in realtà equivalenti. L’identità imposta dalla società della merce è l’ostacolo fondamentale per una emancipazione totale, per la costruzione libera della vita. Nel mondo della produzione della merce la prassi non si attua in funzione di un fine determinato in modo autonomo, ma è soggetta alla pressione di poteri esterni. Se le leggi dell’economia sembrano diventare leggi naturali di un tipo particolare è solo perché il loro potere si fonda unicamente sull’insistenza disperata sull’identità di coloro che vi sono implicati.

Il principio della produzione della merce è il dover ritrovare continuamente se stessi nella creazione caotica e inconsapevole di un mondo che sfugge totalmente ai suoi creatori. Al contrario il nucleo radicalmente rivoluzionario dell’autogestione a tutti i livelli è la direzione cosciente dell’insieme della vita da parte di tutti. L’autogestione dell’identità e della merce ridurrebbe la specie a essere soltanto un programmatore della propria sopravvivenza: è il problema della quadratura del cerchio. Compito dei Consigli metropolitani non sarà dunque l’autogestione del mondo esistente, ma la sua trasformazione qualitativa ininterrotta: il superamento concreto della merce (in quanto il processo di produzione della merce non è che un’imposizione gigantesca sulla costruzione di se stessi). Questo superamento implica ovviamente la soppressione del lavoro e la sua sostituzione con un nuovo tipo di attività libera che sia il superamento della creatività, abolizione quindi del “tempo libero creativo”. Che sia il “tempo libero creativo” che oggi vada messo in questione è da affermare per la prima volta, e un giorno dovrà essere riconosciuto anche dall’ultimo degli artisti coglioni. La sua abolizione è la condizione preliminare del superamento effettivo della società dei consumi. Soltanto superandolo gli uomini potranno fare dell’attività vitale un prodotto della loro volontà e del loro potere, e potranno completarsi in un mondo da essi stessi desiderato. La dittatura dei Consigli metropolitani è la soluzione dell’enigma di tutte le condizioni di miseria attuali. Essa rende “impossibile tutto quello che opprime la costruzione libera di se stessi”.

Il dominio consapevole della storia da parte del Gemeinwesen che ne è la protagonista, questo è il progetto rivoluzionario. La storia oltre il postmoderno, come pure tutta la storia passata, è il prodotto della prassi sociale, il risultato combinato di tutte le attività umane. All’epoca del suo dominio dispotico, il capitalismo ha prodotto la sua nuova religione: l’identità. L’identità è la realizzazione profana dell’ideologia. Il mondo non ha mai camminato così bene sulla testa. E come la “critica della religione”, la critica dell’identità è oggi la condizione primaria di ogni critica. Il problema della rivoluzione è storicamente posto alla specie. L’accumulazione sempre più imponente dei mezzi materiali e tecnici trova riscontro solo nell’insoddisfazione sempre più profonda di tutti. La nuova borghesia planetaria non può realizzare davvero l’impiego dello sviluppo tecnologico che sarà la base della poesia del futuro, perché lavora al mantenimento del vecchio ordine di cose. Tutt’al più detiene il segreto del suo impiego poliziesco. Continua a produrre capitale finanziario e perciò ad accrescere il precariato; precariato è chi non ha nessun potere di decidibilità sulla vita e lo sa. La probabilità di successo che la storia offre al precariato declinato in tutte le sue forme è quella che deriva dall’essere l’unico erede dell’inutile ricchezza del mondo borghese da trasformare e da superare nel senso del Gemeinwesen e della disapprovazione totale della propria natura biologica imposta. Questa ribellione contro la costruzione storica della “natura della specie”  ha senso solo se si compie attraverso la soddisfazione illimitata e la moltiplicazione all’infinito dei desideri reali che l’identità respinge nelle zone  profonde del “vorrei ma non posso” anti-rivoluzionario, desideri che essa non è in grado di soddisfare se non su un piano trasgressivo superato nel delirio tossicomaniaco da circolo Arci. La realizzazione effettiva dei desideri reali, vale a dire l’abolizione di tutti i bisogni e i desideri fittizi che il sistema crea quotidianamente per perpetuare il suo potere non può verificarsi senza l’eliminazione dell’identità e  della merce e il loro superamento e annientamento.

La liberazione della storia oltre il postmoderno e la libera utilizzazione delle sue molteplici conquiste può venire solo dalle forze che essa reprime: gli individui che non hanno nessun potere sulle condizioni, il significato e i prodotti della loro attività. Già nell’Ottocento il proletariato era l’erede della filosofia, oggi gli individui dispersi del futuro Gemeinwesen  sono diventati anche gli eredi dell’avanguardia e della creatività, della primo e iniziale atto di critica cosciente della vita quotidiana. Ma questi individui devono negare avanguardia e creatività se vogliono realizzare nel contempo l’arte stessa e rinnovare la basi di un nuovo tipo di creatività possibile. Trasformare il mondo e cambiare la vita devono essere per questi individui la stessa cosa, sono le parole d’ordine inseparabili che accompagneranno la loro sparizione in quanto miserabili creativi, la dissoluzione della società attuale in quanto regno della necessità, e l’accesso finalmente possibile al regno della libertà. La critica radicale e la libera ricostruzione di tutti i comportamenti e i valori imposti oggi dalla società identitaria sono il suo programma. La creatività una volta superata nella costruzione di tutti i  momenti e gli avvenimenti della vita è la sola poesia che potrà riconoscere, la poesia fatta da tutti, l’inizio della festa fuori controllo rivoluzionaria. Le rivoluzioni proletarie saranno delle feste fuori controllo o non saranno affatto, perché la vita che esse annunciano sarà essa stessa all’insegna una festa fuori controllo ininterrotta. Il gioco è la ratio profonda di questa festa. Le sue uniche regole saranno: vivere senza tempo morto e godere senza ostacoli.