Il 15 febbraio 2010 tenni una lezione allo IED dal titolo "Creare atmosfere: il mondo invisibile delle immagini o della comunicazione non visuale", all'interno di un corso dallo stesso titolo di cui erano docenti anche Michele Elia, Art Director e Graphic Designer, e Anna Cecchini, sceneggiatrice. All'epoca facevo ancora parte del Dipartimento Arte e Propaganda e stavo concludendo il Manuale di Psicogeografia. Ho deciso di pubblicare la lezione in questo post perché anticipa di poco l'uscita del fondamentale "Atmosferologia" di Tonino Griffero e la preziosa opera di divulgazione che sta portando avanti su questo tema (Böhme, Tellenbach), sempre più centrale per un'antropologia della comunicazione non visuale. Già allora, quando il nostro discorso ancora non si era affinato, nonostante alcune risonanze con l'atmosferologia vi erano tutti gli elementi che tutt'ora ci distanziano da Griffero (ad esempio sulla modificabilità delle atmosfere da parte di chi vi si ritrova). Buona lettura!

locandina workshop

CREARE ATMOSFERE: IL MONDO INVISIBILE DELLE IMMAGINI O DELLA COMUNICAZIONE NON VISUALE

Linguaggio comune e determinismo climatologico  

Non è raro che nel linguaggio ordinario si dica che una certa conversazione abbia un certo “clima” o che un luogo abbia una certa “atmosfera”, di solito l’uso delle parole “clima” e “atmosfera” tipiche della climatologia, un campo delle scienze dell’atmosfera, è oggi divenuto puramente metaforico. Allude a un “non so che” a un “qualcosa” che è a lato delle relazioni, che avvolge le parole e i luoghi, quasi un ambiente invisibile che condiziona gli umori e le passioni di chi vi ci si ritrova. Un’atmosfera può essere tesa, ostile, allegra, misteriosa, avventurosa… Quest’uso non è stato sempre metaforico, un’allusione senza fondamento a una percezione condivisa di uno stato d’animo, un’esperienza di percezione intersoggettiva. La scienza geografica dell’’800 era convinta che tutte le differenze dei popoli in fatto di costituzione fisica, morale e psicologica, che tutte le differenze nelle passioni, nel linguaggio, nelle leggi e perfino nella creatività e nel genio fossero influenzate dal clima. La variabile climatica non è che non abbia alcun gioco, ma è solo una delle variabili che entrano in gioco. Lucien Febvre, uno storico francese tra i fondatori degli Annales, ha sostenuto che la ricettività dei popoli a quest’ipotesi, quella del condizionamento atmosferico, era stata preparata nei secoli dalla credenza negli influssi degli astri. Così nel XVII secolo il filosofo Jean Bodin divideva i popoli europei in settentrionali, brutali, crudeli, bestie irragionevoli, bravi ad eseguire gli ordini, quelli intermedi, astuti e vendicativi e con minor artifici, bravi a comandare, quelli del mezzogiorno portati alla scienza dei fatti, e a distinguere il falso dal vero. Attribuiva ai settentrionali il dominio di Marte, agli intermedi quello di Giove e Saturno a quelli del Mezzogiorno. Si postulava dunque un assoluto condizionamento del clima e dell’atmosfera sui comportamenti altrettanto misterioso di quello degli astri. Quando usiamo queste parole ci portiamo dunque appresso questa antica tradizione, credenza e forse superstizione.

Atmosfera, “ambiance” e comunicazione visuale

Ora, noi riteniamo che parlare di atmosfera solo per una conversazione o un luogo sia limitante, ogni sistema di oggetti e di immagini ha la sua atmosfera, ovvero allude a una percezione condivisa possibile e ogni percezione condivisa possibile allude a un mondo che si sta abitando transitoriamente, temporaneamente. Un foglio di propaganda allude dunque a un’atmosfera, a un mondo possibile. Qualsiasi prodotto della comunicazione visuale è una soglia che ci permette di accedere per mezzo dell’atmosfera che evoca a un mondo possibile. Si tratta dunque di imparare a padroneggiare l’atmosfera che ogni sistema di oggetti, immagini e testi evoca, in modo da sapere generare una certa atmosfera consapevolmente e noi chiamiamo questo aspetto non visuale della comunicazione visuale: creazione di atmosfere. L’atmosfera sembra essere qualcosa d’intangibile, in realtà sono molto più concrete di quello che sembra, producono degli effetti e ciò che produce effetti è reale e concreto. I francesi hanno un ottimo termine per dire atmosfera, dicono “ambiance”, l’“ambiance” è più intangibile di un ambiente o degli spazi costruiti ma è più permanente di ciò che noi chiamiamo “atmosfera”. Ovvero non è un semplice prodotto della percezione, se chiudiamo gli occhi continua ad esistere, se ci tappiamo le orecchie continua la sua musica, se lasciamo un’“ambiance”, al ritorno la ritroviamo com’era. 

Le unità d’atmosfera

I primi a cercare le atmosfere urbane furono i lettristi internazionali, poi divenuti situazionisti, essi cercavano passeggiando anche per mesi senza mai tornare a casa, di bar in bar, le unità d’atmosfera delle città e le loro mappe sono un tentativo di riportare questa esperienza in forma grafica (The Naked City). Credevano che le atmosfere esistessero a prescindere da chi le percepiva e che influenzassero le passioni di chi vi si trovava. Intendevano anche generarle con quella che è nota come “costruzione di situazioni”. In realtà se le atmosfere hanno un qualcosa di permanente, esse si modificano anche a seconda delle persone che vi interagiscono all’interno. Così un’atmosfera allegra di un luogo non può nulla contro un gruppo di persone tristi o, al contrario, un gruppo di persone allegre è in grado di modificare un’atmosfera triste. Quest’aspetto dell’atmosfera è stato addirittura formulato scientificamente. Kurt Lewin ha detto che il comportamento è funzione della situazione (termine che possiamo far coincidere con quello di “ambiance”), dell’atmosfera dunque, ma a sua volta l’atmosfera è scomponibile nella persona per l’ambiente (PxA). Dunque quando un sistema di oggetti o di immagini e testi evoca un’atmosfera, una parte di essa sarà generata dal lettore o da colui che guarda. Ciò non toglie che tutti gli elementi di un’atmosfera possono essere regolati in modo da condizionare (ma non costringere) una certa passione, utilizzando sensazioni termiche, illuminazione, odori, sapori, paesaggio sonoro e paesaggio visuale.

Atmosfera, fogli di propaganda e fanzine

Il corso intende portarvi ad usare immagini, immagini di oggetti, e testi in modo da generare un’atmosfera, ovvero generare un mondo possibile con una certa stratificazione che avvolga, sia a lato, evochi, alluda e non solo colpisca come un ago il ricevente del messaggio o lo metta nella posizione di un negoziatore o decodificatore. 

La Deadzine che il Dipartimento Arte e e Propaganda realizza da circa un anno è in realtà un ibrido tra una fanzine e un foglio di propaganda, due tradizioni diverse che convergono nello stesso foglio. Noi vorremmo che voi riusciste a calarvi in entrambe le dimensioni comunicative e realizzare allo stesso modo un ibrido. Piuttosto che fare la storia dei fogli di propaganda vorrei che aveste chiara l’atmosfera in cui questi si sono realizzati nella storia e forse l’esempio più avvincente è quello della letteratura clandestina degli ultimi tre decenni del Settecento in Francia, quella che si produsse alle porte della Rivoluzione. Il grande successo che ebbero gli enciclopedisti come Voltaire, D’Alembert, Diderot, d’Holbach, Helvetius fece sì che questi autori, tutti provenienti da una borghesia molto benestante fossero accolti nei salotti dell’aristocrazia. D’un tratto sembrò che si potesse acquisire un grado di nobiltà attraverso il solo talento letterario e si diffuse il mito dell’esistenza di una Repubblica Democratica delle Lettere. Si trattava di un’ipocrisia come dimostra il caso di Rousseau: è vero che egli fu accolto dagli enciclopedisti come uno dei loro, ma per le sue umili origini (era figlio di un orologiaio), visse spesso forme violente di esclusione, si sposò con una semianalfabeta e i salotti furono sempre diffidenti nei suoi confronti, tanto che prese a soffrire di paranoie di persecuzione e si era convinto che questi “signori” (così Rousseau chiamava, gli enciclopedisti e gli aristocratici dei salotti) lo volessero eliminare. Ma c’era il mito della Repubblica democratica delle lettere che prometteva a tanti giovani delle province, di umili origini, figli di tavernieri ad esempio, di potersi fare strada con la sola arma del proprio talento letterario. E così Parigi si riempì di giovani scrittori che bussavano alla porta di questa Repubblica, una porta che non gli fu mai aperta. V’era un’offerta di scrittori che la domanda dei salotti non poteva soddisfare. Inoltre poiché verso il 1770 gli enciclopedisti erano ormai vecchi, la loro preoccupazione era di trasmettere i loro saperi a una nuova generazione, ma le loro scelte spesso cadevano su giovani accondiscendenti privi di talento e i talentuosi rimasti fuori dai salotti finirono per fare la fame. Si creò così un numero impressionante di scrittori straccioni, che per forza di cose stavano sempre per strada a contatto con l’ambiente della malavita, della prostituzione e del proletariato urbano, continuamente vigilati dalla polizia per la loro attività letteraria spesso sediziosa, scandalistica o licenziosa. Si era formata una boheme letteraria in opposizione alla Repubblica delle lettere che viveva nei salotti e nelle accademie. Il loro stile di vita fece sì che sviluppassero le teorie degli enciclopedisti in maniera del tutto originale e furono i protagonisti dell’editoria clandestina, proibita e scandalistica dell’epoca. Si adattavano a scrivere di tutto per poter vivere, a differenza degli autori più famosi che erano mantenuti dall’Antico Regime, vivevano di quello che scrivevano, erano dei veri e propri precari ante litteram. Per sopravvivere erano disposti a scrivere di tutto, tutto ciò che piaceva e muoveva la pancia al popolo. Inventarono ad esempio la letteratura scandalistica, antenata dei giornali di pettegolezzi di oggi, raccontando minuziosamente i vizi decadenti dell’aristocrazia, della regina e del re. Gli scritti di Mirabeau erano di questo tipo, pieni di particolari licenziosi e questi scritti contribuirono moltissimo ad erodere il prestigio della classe aristocratica e a formare la mentalità dei rivoluzionari. Scrivevano anche trattati filosofici, ma con una canaglieria e un cinismo che li portava ad attaccare tutte le istituzioni, si trattava di un vero e proprio movimento nichilista distruttivo che potrebbe ricordare le teorie di Max Stirner. Tipografie in Svizzera, spesso clandestine, diffondevano questo materiale perché era un vero e proprio affare remunerativo. Eppure i grandi autori si facevano beffe di questa boheme fatta da tanti autori anonimi, li chiamavano marmaglia, canaglia e poiché erano spesso perseguitati dalla polizia, senza un soldo, poiché facevano la fame ed erano sempre in viaggio per non farsi arrestare, oppure poiché spesso venivano invece catturati e sbattuti nella Bastiglia, poiché solidarizzavano con le classi più infime della popolazione, con le classi pericolose, erano continuamente dileggiati e venivano chiamati con disprezzo “poveri diavoli”. Erano tutti fan di Rousseau, l’autore in cui si riconoscevano, anche lui di umili origini, anche lui escluso come loro. Alle volte, piegati dai debiti e dalle persecuzioni, alcuni diventavano informatori della polizia continuando la loro attività letteraria ma spiando i loro amici. Questa marmaglia preparò con la loro letteratura clandestina la mentalità che porterà alla rivoluzione francese e loro, destinati ad essere anonimi, ne furono i protagonisti, tanto a sinistra che a destra. Marat era uno di questi, ed era uno di questi anche Brissot de Warville, che divenne il capo della Gironda, la destra della convenzione, il quale ebbe molti problemi perché si scoprì che per campare aveva fatto l’informatore. Autori come Restif de la Bretonne che realizzò la prima utopia licenziosa o Louis-Sébastien Mercier che inventò l’ucronia venivano dalla marmaglia. Deadzine è un ibrido che unisce la tradizione della clandestinità con quella delle fanzine, e vorremmo che nel realizzare il vostro foglio vi consideraste in una situazione in cui non potete parlare, né dire, né scrivere apertamente quello che pensate, che usiate un metodo allusivo, indiretto, come se vi trovaste in un’atmosfera di clandestinità. L’altra tradizione cui ci siamo riferiti realizzando Deadzine è quella della fanzine. La fanzine, partita negli anni ’20 dall’ambiente della fantascienza (le cosiddette fandom) è arrivata oggi fino a  pervadere la rete con le webzine. La fanzine vera e propria, quella che ha creato uno stile grafico e letterario proprio, emerge alla metà degli anni ’70 con il movimento punkrock. Le fanzine stavano alla carta stampata come il punkrock al rock’n’roll. Erano amatoriali, realizzate da appassionati, con pochi mezzi e zero budget. Esistevano riviste vere e proprie che si occupavano del punkrock come New Wave, ma le fanzine erano un’altra cosa. Fecero di necessità virtù, usando il ciclostile, le prime fotocopiatrici, usando il taglia e incolla, scrivendo i titoli a mano, e così come la moda punk inventata da Vivienne Westwood è diventata alta moda, così questo stile ricombinatorio dovuto alla scarsità di mezzi è diventato uno stile grafico che oggi influenza Mtv e le stesse riviste (l’esempio di Nero magazine a Roma). Le prime furono Sniffin’ Glue o Search and Destroy, - di Sniffin’ Glue uscirono quindici numeri, il tipo che le faceva smise perché oltre ad essere un appassionato del punk aveva una band, gli Alternative Tv. Il motivo della diffusione delle fanzine (ve n’erano migliaia in Inghilterra e Stati Uniti) è dovuto al fatto che qui non vi era bisogno né di un direttore responsabile né di un’autorizzazione del tribunale per poterle vendere. In Italia la diffusione fu ostacolata dal fatto invece che questi requisiti erano necessari, così molte fanzine si legarono a radio o a gruppi politici che avevano poco a che fare con la loro attività. Basti pensare all’esempio di Dudu, poi divenuta Pogo. Anche qui vi invitiamo ad approcciare al foglio con le modalità della fanzine, ovvero con pochi mezzi a disposizione. La creatività che riesce con pochi mezzi a imporre un’atmosfera e uno stile è quella che ci piace, è la più autentica creatività.

Deturnamento, Plagiarismo e Cultura Popolare 

Le tecniche di ricombinazione di immagini e testi che prenderemo in considerazioni non sono quelle dada e surrealiste, ma quelle che si sono imposte nell’immediato dopoguerra: ovvero il cut-up, il deturnamento e il plagiarismo. Il cut-up viene dall’ambiente letterario, in particolar modo dalla metodologia di scrittura di William Burroughs e Brion Gysin. Si tratta di prendere un brano, ritagliarlo in diverse parti, rimescolarlo a caso e vedere il testo che ne risulta. L’esempio più semplice è prendere una pagina tagliarla in otto pezzi e ricombinarla, questo metodo è stocastico, ovvero il risultato è casuale ed è lontano da ciò che qui c’interessa. L’aspetto tuttavia più incredibile è che Burroughs e Gysin scoprirono che tutti i testi dotati di senso che risultavano nella forma ricombinata, se il materiale di partenza aveva un’atmosfera ostile, tesa o paurosa o, al contrario, allegra e comica, trattenevano tale atmosfera. Ovviamente lo stesso discorso vale per il materiale visuale. Solitamente tutte le tecniche di ricombinazione vengono chiamate indifferentemente cut-up, deturnamento o readymade, ma non è corretto. Qui c’interessano quelle tecniche la cui ricombinazione produce un esito non casuale. Il deturnamento è un dirottamento del senso di un materiale estetico preesistente, è un metodo che si adatta a qualsiasi mezzo d’espressione, dalla moda al cinema, dal fumetto alla letteratura. I primi a teorizzarlo furono Guy Debord  e Gil J Wolman. Quello che mai si dice è che Debord e Wolman lo proposero come una forma di propaganda ed è ciò che lo distingue da altre metodologie.  Ma non solo. Debord e Wolman erano situazionisti e dicevano che non esisteva una pittura situazionista o un cinema situazionista, ma un uso situazionista della pittura e del cinema. Essi producevano opere originali utilizzando i materiali più disparati, dal cinema di serie B alla pubblicità, oggi ci può sembrare un’ovvietà, ma all’epoca era una strategia creativa innovativa, erano gli inizi degli anni ’50 e i lettristi-situazionisti con il deturnamento delle pubblicità o la pubblicazione di libri in cui si componevano insieme pittura informale (Asger Jorn) e ritagli di pubblicità hanno anticipato la pop art. Prima di arrivare al deturnamento del patrimonio di immagini di un‘epoca Debord aveva sperimentato l’azzeramento dell’immagine nel cinema, il suo film “Urla in favore di Sade” era composto di schermi tutti bianchi o tutti neri, col sonoro che c’entrava poco col titolo. Il film scandalizzò il pubblico, ci furono proteste, ma pensate che all’epoca Debord aveva la sua base nel caffè Chez Moineau che era frequentato da molti scrittori e artisti, tra cui i Nuovi Realisti e Yves Klein e ormai si sa che l’idea di Klein di realizzare dei monocromi, poi tardivamente introdotti in Italia da Mario Schifano, derivano dalle suggestioni di quel film. Per molto tempo si è pensato che bastava prendere degli elementi casuali per produrre un deturnamento, ma l’analisi dei film di Debord dimostra che la selezione non era affatto casuale. Debord recuperava fumetti come il Principe Valiant, pezzi di film di Carné o di film che oggi diremmo di serie B, addirittura pezzi di suoi film precedenti, e tutti questi riferimenti erano elementi di un immaginario composito che egli condivideva con i suoi amici quando aveva vent’anni. Pur essendo film di propaganda, di fatto il sonoro era di solito sempre un testo politico situazionista contro la società dello spettacolo, le immagini erano l’occasione per ricreare l’atmosfera dell’ambiente che viveva a Parigi negli anni ’50. Il deturnamento s’ispira esplicitamente all’opera di Lautréamont, un poeta francese dell’ ’800 (lettura in aula di alcuni brani). Negli anni ’80 il Neoismo, un movimento artistico il cui nome è formato da un prefisso “neo” e un suffisso “ismo” senza nulla in mezzo, era una vera e propria parodia delle neoavanguardie. I Neoisti sostenevano che il Neoismo non esistesse e che fosse un’invenzione dei suoi nemici. Utilizzavano il deturnamento, ma stringendosi ancor di più alla pratica di Lautréamont presero a chiamarlo “plagiarismo”. Chi più di ogni altro ha diffuso la cultura plagiarista è lo skinhead, artista e critico d’arte Stewart Home, autore anche di un’interessante storia dell’arte dei movimenti del dopoguerra. Il plagiarismo da non confondere con il plagio, così come non va confuso il plagiarista con il plagiaro, si è legato alla pratica dei multiple name, del no copyright e della mail art ed è anche un modo di pensare che ha influenzato profondamente la cultura della rete. Le comunità di mail-artisti erano dei veri e propri social network ante litteram e sono stati tra i primi a prendere d’assalto il web, anticipando forme d’arte come la net.art. Il plagiarismo è del tutto simile al deturnamento, ciò che li distingue è che non è per forza di cose una forma di propaganda, ma una metodologia più schiettamente artistica. L’idea di base del deturnamento e del plagiarismo non è un’invenzione delle avanguardie, l’idea di base che mette in discussione il genio creativo individuale a favore della natura cooperativa della creatività, l’idea quindi dei multiple name e la critica della proprietà privata delle idee come limite alla loro diffusione è in realtà una pratica immemorabile che risale alla notte dei tempi e che ritroviamo sempre e comunque nella cultura popolare, sia intesa come folklore sia come cultura pop. Oggi il deturnamento e il plagiarismo sono favoriti dalle sempre più avanzate tecnologie di riproduzione, ma essi esistono da sempre: la trasmissione di racconti, fiabe e miti, ad esempio, è sempre avvenuta attraverso il linguaggio, di bocca in bocca, una tradizione orale che attraverso il passaggio da un cantastorie all’altro, da una zona geografica all’altra, da un popolo all’altro subiva delle modificazioni. Il patrimonio di immagini e plot che vi era nei miti e nei racconti era una tradizione, ma la tradizione lungi dall’essere una  realtà culturale immobile e immodificabile, subiva continuamente delle innovazioni che le permettevano  di essere adeguata ai tempi (pensate a feste che sostituiscono un vecchio santo con uno nuovo) e ai gusti tipici di un luogo. Il processo culturale della cultura popolare è formato tre pratiche che ritroviamo ancora oggi: un patrimonio di base, profondo, la cui struttura cambia molto lentamente che chiamiamo “tradizione”, alcuni aspetti di questa struttura come nomi di personaggi o tipi di azione che subiscono modificazioni, ovvero l’“innovazione” e poi l’autentico atto creativo, l’“invenzione”, che di solito è una rottura che crea una nuova tradizione.

 

Daniele Vazquez