Alla dicotomia città/campagna nel dibattito contemporaneo sull'urbanismo sembra essersi sostituita quella tra insediamento denso o diffuso, nel dialogo che segue tra Jacques Camatte e alcuni psicogeografi avvenuto in un incontro pubblico alla libreria "Anomalia" di Roma il 3 novembre 2012 il pensatore francese indica come soluzione la riscoperta della comunità che permetterebbe una diffusione degli insediamenti umani sul territorio diversa da quella attuale, declinata in maniera individualista e basata sulla casa unifamiliare. La riscoperta della comunità permetterebbe di ridurre drasticamente il numero di case e il consumo di suolo superando la questione della dispersione o della ridensificazione urbane. Quando Camatte parla di comunità traduce in italiano il termine marxiano "Gemeinwesen" e non quello classico "Gemeinschaft", ovvero "l'essere comune" degli uomini e delle donne nel loro divenire. Jacques Camatte è animatore dal 1968 della rivista Invariance (oggi on-line). Della sua vasta produzione teorico-riflessiva, esistono in lingua italiana: "Il capitolo VI inedito del ‘Capitale' e l'opera economica di Karl Marx" (International, 1972), "Comunità e comunismo in Russia" (Jaca Book, 1975), "Il capitale totale" (Dedalo, 1976), "Verso la comunità umana" (Jaca Book, 1978), "Il disvelamento" (La Pietra, 1978), "Comunità e divenire" (Gemeinwesen, 2000) e "Dialogando con la vita" (Colibrì, 2000).

la dispersione perfetta secondo Gutkind

**Città e Gemeinwesen**

Dialogo tra Jacques Camatte e alcuni psicogeografi

 

Psicogeografo 1: “Nella teoria urbana di Marx si auspicava di far saltare la dicotomia città-campagna, lo stesso Bordiga diceva che nel programma comunista ci doveva essere la redistribuzione della popolazione nelle campagne, su tutta la superficie. In realtà l’ideologia del riscoprire la natura, del ritornare alla natura, ha paradossalmente contribuito a distruggerla, a produrre quella che tecnicamente viene chiamata ‘impermeabilizzazione del territorio’. Quell’ideologia era un’ideologia di origine aristocratica, poi divenuta borghese, l’ideologia di avere ‘la villa in campagna’, ma quest’ideologia si è democratizzata e ha finito per produrre quello che negli studi urbani si chiama ‘sprawl’, cioè l’urbanizzazione delle campagne. Il compagno prima parlava di “metropoli”, ma non abbiamo più a che fare con metropoli, abbiamo a che fare con un’enorme ed estesa urbanizzazione diffusa per cui la circolazione in realtà passa ormai dappertutto e mai come in questo periodo in cui la campagna è un’ideologia e l’agricoltura sembra addirittura diventata un settore produttivo strategico, fino al punto di promuovere l’agricoltura nelle città,  mai come in questo momento l’opposizione città-campagna è finita non tanto perché è morta la città ma perché sta morendo la campagna, in quanto è tutto diventato città, tutto si urbanizza”.

Jacques Camatte: “La città non esiste più, la città come ancora l’immaginiamo era un fenomeno proprio della società borghese, tuttavia quando nasce e si sviluppa il capitalismo realmente la città sparisce e c’è questa rete. Allora mi viene in mente che all’inizio del secolo scorso c’era ancora questa discussione sulla città e la campagna e Alfred Jarry diceva ‘L’unica soluzione è mettere le città nella campagna‘ e cosa è accaduto? Proprio questo. Io vivo in un piccolo paese di 220 abitanti e c’è quello che chiamano un ‘piano locale di urbanizzazione’, allora io una volta  ho chiesto ‘ma siamo nella campagna, perché c’è bisogno di un piano di urbanizzazione’?  Quel che voglio dire è che non si tratta dello spirito della città, ma dell’urbanismo ed è di nuovo un processo di controllo della popolazione”.   

Psicogeografo 1: “Sì, ma non pensi che per salvare da una posizione non antropocentrica la natura dovremmo restare nelle città?  Se io posso dire, io come individuo: ‘voglio riscoprire il mio rapporto con la natura, me ne frego, vado a vivere in campagna, pago di meno, ho meno problemi, non ho problemi di congestione e di traffico’, e se tutti ragionano come me, andiamo tutti a vivere in campagna, finiamo per urbanizzarla. Gli urbanisti ormai vogliono la pianificazione di area vasta perché si occupano anche delle aree rurali, quindi l’unica soluzione da una posizione non antropocentrica è capire che ci dobbiamo astenere dal vivere in campagna, dobbiamo vivere nelle città, perché più noi viviamo concentrati, densi, verticalizzati meno intacchiamo i territori, meno intacchiamo le superfici naturali”.

Psicogeografo 2: “Strategicamente andare a vivere in campagna converrebbe perché i dispositivi di controllo sono più fluidi, però ci sono anche là”.

Psicogeografo 1: “Il paradigma del governo delle popolazioni è cambiato nel momento in cui era più difficile governare le popolazioni delle città diffuse, un conto è una macchina della polizia che passa su una via densa e controlla facilmente tutto, diverso è in una zona in cui ogni cento metri c’è una casa unifamiliare e questa cosa si ripete per centinaia di chilometri. Questo ha prodotto una crisi della governamentalità che è stata superata attraverso i dispositivi di telefonia mobile, ecc.”.

Psicogeografo 2: “Però quello che m’immagino io è che nella metropoli i dispositivi sono iper-concentrati, se tu strategicamente invece ti fai una comune in campagna, ti fai una comune, diciamo, combattente e rivoluzionaria, raggiungi una zona di opacità, non è che vai fuori dal mondo, non è che non ci sono i dispositivi, ma sono meno densi”.

Psicogeografo 1: “Non esiste, già Rousseau diceva che la Svizzera era una grande città perché non riuscivi più a vedere una parte di campagna senza una casetta, figurati adesso, dove la vedi la campagna isolata dove il potere non può arrivare?  Questo per prima cosa. Seconda cosa, paradossalmente, l’atteggiamento di voler salvare la natura la distrugge, la natura si salva da sola se noi ci asteniamo dall’intervenire”.

Jacques Camatte: “Va bene, ma tu ragioni in funzione dell’individuo, non possiamo trovare  la soluzione se rimaniamo individui, possiamo vivere in campagna e rigenerare la natura, perché la campagna non è la natura, solo se viviamo in comunità. Altrimenti ci sarebbe bisogno di un numero di case incredibile. Ad esempio, non ci dovrebbe essere più l’automobile personale, ed anche la macchina agricola personale: se io ho un trattore questo basta se è utilizzato da una comunità, invece io ne ho uno, degli amici un po’ più lontani ne hanno un altro. Non si può risolvere il problema se non ritroviamo la comunità, altrimenti quello che dici tu è giusto. Tuttavia non soltanto le città devono sparire, cioè quelle che ora continuiamo a chiamare città ma che non lo sono più, ma si deve trasformare anche il modo di fare:  ad esempio, a Parigi c’era un parcheggio e l’hanno trasformato in un orto, lavorano insieme, ma non solo, c’è una ripartizione tale che ognuno prende quello che gli è necessario. Dunque si tende a un’inversione dell’atteggiamento”.

Psicogeografo 1: “Vorrei sapere se ritieni che l’insediamento delle popolazioni debba essere distribuito, diffuso oppure concentrato”.

Jacques Camatte:  “Secondo me non si può porre la questione così, dipende da quello che accadrà”.

Psicogeografo1:  “La tendenza è a distribuirsi”.

Jacques Camatte: “Non  posso dirlo se poni la questione così, secondo me la gente partirà da quelle metropoli di cui parlavi, normalmente la specie umana dovrebbe vivere nelle zone che le sono adatte, ad esempio tra quattro-cinque secoli dovremmo abbandonare tutte le zone tremende come la Russia e lasciarle alla natura, per vivere nelle zone per cui siamo più adatti, in cui non abbiamo bisogno di troppa tecnica perché la tecnica è stata necessaria per poter vivere nelle zone dove noi non dovevamo vivere. E  dunque è un problema enorme”.

Psicogeografo 3: “Sì è un problema enorme, io ho trovato molto interessante quello che diceva il compagno, se per ipotesi tutti lasciamo la città e andiamo a vivere nelle zone temperate, effettivamente c’è un rischio forte”.

Jacques Camatte: “Sì, ma questo è un ragionamento astratto, perché le cose non andranno così, bisogna essere aperti a quello che deve accadere, secondo me c’è la possibilità di un rovesciamento, se facciamo come dici tu sarebbe la distruzione totale. Certo, è un processo complesso, nello stesso tempo in cui dobbiamo ritrovare noi stessi dobbiamo ritrovare la comunità, diminuire la popolazione umana, piantare, non so, miliardi di alberi e in proposito io non sono disfattista perché ci sono persone che dicono che siamo ormai troppi, ma possiamo anche utilizzare questa sovrappopolazione. Se  siamo sette miliardi, diciamo che possiamo avere, mettiamo, quattro miliardi di persone che potrebbero cimentarsi  con il lavoro di piantare soltanto un albero, parlo di quattro miliardi di alberi ed è solo piantando alberi che possiamo risolvere il problema del cambiamento climatico. Dobbiamo rigenerare la natura perché è tutto l’insieme degli esseri viventi che gestiscono il pianeta: la temperatura, tutte le condizioni sono controllate dal processo del vivente. Ad esempio, all’inizio c’era troppa anidride carbonica ma attraverso lo sviluppo degli animali a guscio e noi stessi, con il nostro scheletro, abbiamo prodotto il carbonato di calcio che ha fissato l’anidride carbonica facendola diminuire e sempre ci sono questi processi incredibili che mostrano la potenza non soltanto delle forme viventi visibili, ma anche dei batteri. Tutti gli esseri viventi intervengono nel processo. Ad esempio le Dolomiti hanno un numero incredibile di una specie di protozoi certe volte neanche visibili con il microscopio che risolvevano altri problemi, se il calcio è troppo può creare dei disturbi agli esseri viventi  e allora questi  organismi hanno prodotto la dolomite nella quale non soltanto c’è il calcio ma anche il magnesio. Non possiamo dire di risolvere il problema senza capire che abbiamo bisogno di tutti gli esseri viventi , è per questo che parlo sempre della natura, ma non dico questo per negare quello che dice lui. Il problema è ovvio, è la questione di Pol Pot, quel cambogiano, lui disse che avrebbe distrutto le città, ma il modo che con cui lui ha voluto distruggere le città è orribile, dunque dobbiamo  sempre essere aperti a quel che accade per trovare la soluzione,  dobbiamo avere una visione veramente potente dello scopo, cioè  la rigenerazione della natura, la nostra stessa rigenerazione in quanto individui e in quanto specie”.