La città polifonica è un libro dell'antropologo Massimo Canevacci uscito per le edizioni SEAM di Roma nel 1993. Per le nostre ricerche sulla fine della città postmoderna abbiamo deciso di rileggerlo e a distanza di tanti anni ci sembra di poter dire che si tratta di un vero e propro report psicogeografico, il primo mai realizzato da un italiano. All'epoca la micro-società di attivisti che si raccoglieva nell'aula occupata della facoltà di sociologia dell'università "La Sapienza" di Roma non l'accolse benevolmente, anzi. I giovani postoperaisti non potevano accettarlo perché c'era tanta soggettività ma non quella prodotta da un collettivo, i postmodernisti non potevano accettarlo perché si attaccavano i simulacri e la teoria di Jean Baudrillard, gli anti-postmodernisti non potevano accettarlo perché era contro la ratio (ma non contro la razionalità come potrete leggere, e nemmeno contro il logos ma per una sua diversificazione), i blissettiani non potevano accettarlo perché il rifiuto radicale dell'identità  li portava a cercare ancoraggi teorici originali che li mettessero in sicurezza e volevano farla finita con la retorica dello smarrimento (ma Canevacci non era affatto retorico su questo punto, riconosceva il disagio e l'angoscia dello smarrimento tuttavia ne faceva un momento produttivo della ricerca sul campo). Eppure, anche qualora non si volesse ammetterlo, tutti loro sono stati in qualche modo  influenzati e ispirati dalle sue lezioni anti-conformiste e la storia ancora da scrivere della Roma anni '90, quando questa città era l'epicentro di un terremoto controculturale che vedeva coinvolta tutta l'Europa, dovrà riconoscerlo come l'unico dei suoi protagonisti proveniente dall'accademia.  Abbiamo deciso di assemblare liberamente alcune parti del libro, soprattutto quelle metodologiche (i titoli dell'assemblaggio e dei paragrafi sono una nostra invenzione non presenti nel libro) e proporvele come delle indicazioni utili per l'esplorazione psicogeografica.

declino di un luogo sacro: il mc donald di via Henrique Schauman, San Paolo

La città polifonica: esplorare il terzo margine della strada

Massimo Canevacci

I TRE RITMI DELL’ESPLORAZIONE

La prima cosa che mi comprai — e che conservo ancora — fu la mappa della città. Ma questa, anziché aiutarmi, inizialmente mi procurò una confusione ancora maggiore: mai avrei immaginato una tale enormità di São Paulo e, insieme, una tale vischiosità. Ogni mappa caratterizza la «sua» metropoli, ma quella era ed è una così grande megalopoli, che sovrappone e mescola stili e punti di riferi­mento in un modo parossistico, per cui l’unica cosa da fare per uno «straniero» come me, con all’epoca scarsissime conoscenze di por­toghese, non poteva che essere (oltre all’immobilità) lo smarrimen­to. Infatti, la stessa mappa della città era così enorme che aprirla tut­ta per strada era impossibile oltre che inutile. Era come se la mappa coincidesse col medesimo territorio, anziché esserne una ristretta ri­costruzione simbolica: il che poteva gettarmi nella disperazione o, appunto, nello smarrimento. E proprio lo smarrirmi fu, più che una mia decisione, un mio abbandono quasi adesivo al fluire delle emozioni.

Ed è certo che, se perdersi in una città qualunque è facile (oltre che imbarazzante) perdersi a São Paulo è solo vertiginoso. È come immergersi nella vertigine stessa.

 Abituato alla mia città — Roma — dove l’unico modo possibile per conoscerla è percorrerla a piedi, decisi di usare il medesimo «linguaggio» e cominciai a camminare: fu cosi che, sbagliando, tentai di avere ragione del territorio paulistano. Sbagliando, perché São Paulo — come capii dopo — non solo è troppo vasta, ma è comprensibi­le lungo il suo territorio pubblico almeno tanto quanto dentro le sue interiorità private; e perché le scorrerie, specie notturne, con l’automobile nelle sue «autostrade interne» sono altrettante fonti di : percezioni cognitive. Ben presto imparai che questa «Grande Città» è conoscibile alternando tre ritmi del comportamento e del control­lo spazio-temporale: l’immobilità domestica, l’iper-velocità notturna, la lentezza del cammino solitario. Tutte e tre queste dimensioni sviluppano altrettante modalità dell’osservazione, il cui intrigo finale costituisce la rete attraverso cui rappresentare quel tessuto metropolitano.

CAMMINARE  E’ SBAGLIARE

Eppure, in prospettiva, quello fu uno sbaglio utile, perché se, a differenza di Rio, la vita sociale di strada è poco significativa — in quanto si svolge di preferenza nel chiuso delle case private, negli shopping center, nei piccoli locali che fanno tendenza o nelle grandi istituzioni culturali pubbliche — pur tuttavia iniziai subito ad osservare come la città comunica coi suoi edifici, con le sue strade, le insegne, i negozi, i flussi di un traffico insaziabile.

Il camminare lungo São Paulo — forzosamente breve — sembre­rebbe poter aggiungere poco alla possibilità della sua conoscenza, per la lunghezza delle sue strade dai numeri civici a 4 cifre, impara­gonabili con quelle italiane. Questo giudizio sembra essere confer­mato da una notazione molto semplice: in genere, un veloce sight-seeing con bus specializzati può dare una visione, sia pure approssi­mativa e frettolosa, della città. Ma questo è del tutto inutile per São Paulo. E credo che proprio per questo motivo — cioè l’irrappresentabilità simbolica della città per il turista generico — non sono nem­meno previste visite di questo tipo.

A São Paulo è semplicemente inconcepibile un tour urbano: per eccesso di «metropolitanità». Esso è impossibile perché la città si è sviluppata in un modo che renderebbe inefficace e senza senso qualsiasi rapido giro organizzato.

Già fin da queste prime note, si delinea una città che comunica con voci diverse e tutte co-presenti: una città narrata come da un co­ro polifonico, in cui diversi itinerari musicali o materiali sonori si incrociano, si scontrano e si fondono, conseguendo più alte armo­nie o dissonanze attraverso le rispettive linee melodiche.

La città si presenta polifonica fin dalla sua prima esperienza.

L’impossibilità di percorrere a piedi in modo significativo il ter­ritorio metropolitano — ma ricordo ancora l’euforia di aver rag­giunto a piedi il parco Ibirabuera da rua Frei Caneca utilizzando so­lo la mia mappa — mi spinse a selezionare alcune zone secondo un’ottica qualitativa. Su questi luoghi elettivi concentrai gli sguardi e le passeggiate, fino ad elaborare le prime ipotesi di lavoro, la selezione degli indicatori e persino un metodo specifico attraverso cui : rappresentare la città, a mano a mano che si chiarivano ai miei oc­chi i codici caratteristici di una strada, di alcuni edifici o di interi quartieri.

Rimango convinto che è possibile elaborare una più o meno precisa metodologia di ricerca sulla comunicazione urbana solo ad un patto: quello di volersi perdere, di godere nello smarrirsi, di ac­cettare l’essere diventato straniero, sradicato e isolato prima di poter­si ri-costituire una nuova identità metropolitana. Sradicamento e estraneazione sono momenti fondamentali che — più subìti che predeterminati — permettono l’elevarsi verso nuove possibilità co­gnitive, attraverso un risultato «sporco» di miscelazioni imprevedibili e casuali tra livelli razionali, percettivi ed emotivi come solo la forma-città sa coniugare[1].

MASSIMA INTERNITA’ E MASSIMA DISTANZA

…la nostra ricerca si colloca all’interno di una cornice metodologica para­dossale: stare il più vicino possibile dentro i molteplici, confusi e so­vrapposti traffici-miasmi-ingorghi che si sprigionano e diffondono nei circuiti metropolitani; e, contemporaneamente, allontanarsi teoricamente il più possibile da tutto ciò e muoversi nei territori dell’astrazione per dissolvere la specificità empirica urbana e cogliere alcune tendenze proprie dell’attuale cultura caratterizzata da un processo divergente e obliquo di localizzazioni e mondializzazio­ni[2]. Definiamo tale paradosso metodologico come massima interni­tà e massima distanza.

In definitiva è possibile comprendere la città solo fissando altri panorami che la escludono dall’orizzonte. Ma ciò è realizzabile solo in quanto si patisce, con le proprie dilatate attività percettive e co­gnitive, non solo il disagio urbano, quanto anche la sua seduzione. E necessario stare dentro e fuori lo spazio urbano: saltare tra la città.

I contorni delle città attuali — quelle che una volta erano le sue mura che «comprendono» il suo territorio e che ora possono essere disegnate come un orlo in perenne mutazione — sono visibili solo in quanto li facciamo dissolvere nei deserti dell’astrazione. L’allon­tanamento dalla città è la condizione per la sua comprensione — purché sia stato accompagnato, tale processo, da una totale immer­sione dentro le compulsioni urbane. Questi «salti» paradossali — tra il locale e il mondiale, tra l’interno e l’esterno, tra il saggistico e il letterario — si basano sul senso del proprio sradicamento. Dice Benjamin: «Prima che Mosca stessa, è Berlino che si impara a conoscere attraverso Mosca» (1971:7).

Massima distanza e massima internità sono due processi tra loro contraddittori, separati eppur vincolati, che costituiscono le basi metodologiche dell’osservazione antropologica nei territori urbani e della loro possibile rappresentazione. Il punto di vista soggettivo e quello oggettivo, quello dell’osservato e quello dell’osservatore devono essere co-presenti nello stesso «fuoco» oculare: per questo lo sguardo antropologico è obliquo. Il suo angolo cognitivo è dato dalla calibrazione — mai predeterminabile — tra l’orizzontalità del­l’empatia fusionale e la verticalità dell’astrazione visionaria[3].

 OPACO E’ CIO’ CHE E’ FAMILIARE

 Da un punto di vista antropologico, il proces­so di straniamento deve essere portato laddove apparentemente più abitudinario e, appunto, «familiare» è il nostro rapporto col mon­do; mentre l’opposto processo di familiarizzazione deve investire e scoprire quello che è sconosciuto.

Una metropoli brasiliana è contemporaneamente del tutto simi­le e del tutto diversa da una metropoli italiana. Per abituarsi a fare ricerca su un sistema comunicativo contradditorio — ovvero il cuore del metodo dialettico, per altri versi in crisi — è necessario pensare l’impossibile: la città di São Paulo come la più identica e la più opposta a Roma. Per conseguire tale risultato col medesimo og­getto di ricerca è necessaria proprio questa prospettiva obliqua: estraniare ogni possibile familiarità con la città e, insieme, familiarizzare con le sue molteplici differenze.

La cosa più opaca della nostra cultura contemporanea è quella a noi più familiare, proprio in quanto ci coinvolge direttamente in tutta la vita quotidiana e anche in quella onirica. Il conseguente pa­radosso visibile è che la cosa a noi più sconosciuta è la notissima pubblicità o il celebre edificio. Lo shopping center sempre aperto e lo schermo dagli ininterrotti spot sono cose opache da rendere tra­sparenti attraverso l’approccio interpretativo che attraversa, fram­menta, collega quei paesaggi visuali.

Momento necessario per un approccio corretto tra il circuito dei media e dei malls è che — per stabilire i concetti operativi del metodo — il ricer­catore compia su se stesso uno sforzo di estraniamento: guardare obliquamente l’arcinoto — il glifo pubblicitario, il glifoclip o il video-gramma — con la stessa ingenuità con cui si osserva un panorama esotico, con l’identica voglia di immersione in tale seduttiva diffe­renza. Ma anche con la stessa serietà con cui si guarda un’opera d’arte. Solo successivamente a tale doppia — nel senso sia di duplice che di ambivalente — operazione metodologica quanto psicologico-comportamentale è possibile passare alla fase più creativa, quella dell’interpretare, di attraversare l’opacità dello schermo o dell’edifi­cio e renderli trasparenti.

È l’osservazione osservante. Essa non è più «partecipante» all’azione, ma osserva anche se stessa come soggetto che osserva il con­testo. È meta-osservazione.

LO STRUTTURALISMO: ASTRAZIONE EVOCATA DALLA CITTA’

Una città — in particolare una «Grande Città» come São Paulo o New York — non limita le sue inferenze alle sole riflessioni che si possono scrivere su di essa, come l’inizio dei Tristi tropici. Anche quando si tratta di un antropologo. E persino quando questo antro­pologo sta elaborando un metodo — lo strutturalismo — che con­quisterà a lungo un’egemonia nel proprio ambito disciplinare, e che si estenderà anche in vasti territori affini delle scienze umane e sociali.   La Grande Città, infatti, non è solo il testo che l’antropologo straniero o indigeno osserva e interpreta. È anche il contrario. È an­che un contesto condizionante entro il quale si svolge il proprio la­voro: è la stessa Grande Metropoli che osserva il suo ospite, in par­ticolare se straniero, in ogni suo movimento psichico. Essa è un contesto ben potente e «parlante», che non si lascia ridurre a semplice sfondo, a città-panorama su cui distendere il proprio sguardo lucido e tagliente: proprio tale contesto — che racchiude, conforma e «veste» il ricercatore nel mentre esercita il suo sforzo creativo —  può avere una relazione causale per la nascita stessa di un nuovo metodo, anche se, apparentemente, esso non sembri aver nulla a che vedere col discorso urbano.

…la città, applicandovi il principio di retroazione dinamica , è agita dentro al soggetto. Io «sono» la città in cui vivo. Non solo io «penso» con la città in cui vivo, ma anche la città «pensa» con l’antropologo che in lei vive. Essa pensa l’antropologo. La città «abita» in me. Gli interi circuiti informazionali della metro­poli sono parte costitutiva della mia «mente», senza soluzioni di continuità. La comunicazione urbana mi possiede prima ancora di essere io a possederla teoricamente.

È necessario rovesciare l’ottica per raddrizzare (e quindi comprendere) Lévi-Strauss: è la grande città – è New York – che spiega i villaggi Bororo o Nambikwara.

Il destino dello strutturalismo è stato preformato e anche concepito in un tale contesto urbano: sarebbe inconcepibile senza di esso. Quel metodo che raffinava gli strumenti per interpretare quelle culture sopravvissute al più arcaico passato porta i segni del suo poter essere pensato solo all’interno del più avveniristico futuro. E New York — come già São Paulo - in conclusione, che spiega i Nambikwara.

Il terreno su cui fare ricerca è quello in cui si sperimentano anche le teorie antropologiche: il vivere urba­no, specie in una metropoli, anzi in quella che è «la» metropoli per eccellenza, influenza direttamente il modo in cui formulare i pro­blemi, in cui presentare gli interrogativi e come riformularli in mo­do «razionalmente» compiuto. La metropoli «parla» dentro lo strut­turalismo. Essa penetra dentro i concetti chiave, modella la perce­zione delle identità e delle differenze. Attraverso essa si mette in luce la pressione verso la produzione di pensiero astratto, di epistemologie urbane.

LO STORYTELLER DELLA CITTA’

 La São Paulo che segue è costruita sulla comunicazione di diffe­renze urbane che, nella loro relazione, costruiscono la mia mappa. Modelli urbani che comunicano analogie e contrasti, repulsioni e attrazioni, conflitti e incastri. Qualsiasi rappresentazione di un og­getto, e in particolare dell’oggetto etnografico, non potrà mai coin­cidere con la supposta «essenza» dell’oggetto stesso. Essa sarà sem­pre una sua ricostruzione approssimativa, storicamente data dalla comprensibilità dei codici che segnalano le differenze, esattamente come la mappa e il territorio. Una carta geografica che ambisca ad essere totalmente identica al suo oggetto non potrebbe che risultare una sua onnipotente riproduzione. Un secondo territorio. Ma una carta geografica uguale a Roma è di nessuna utilità. In essa si coagula solo un narcisismo senza confini né limiti di un io che vorrebbe coincidere con l’oggetto della propria ricerca, per identificarsi con essa e, in definitiva, per assorbire e annullare questo oggetto dentro una ambiziosa dilatazione dell’io.

Questo fraintendimento sottintende la negazione dell’alterità. A questo altro-da-sé, infatti, sia esso l’enorme distesa della me­tropoli brasiliana o il più isolato individuo che intervistiamo, si per­mette di esistere solo in quanto assimilato — ridotto — alla soggetti­vità del ricercatore. L’assimilazione è la negazione della differenza e sì presenta come un raddoppiamento onnipotente.

Nella volontà di rappresentare l’oggetto con la duplicazione dell’oggetto stesso vi è la storia gnoseologica dell’Occidente, basata sul principio di identità, dai simulacri platonici a quelli di Baudrillard. Nella volontà di duplicare l’essenza dell’oggetto — e solo così di coglierlo, di «comprenderlo» — vi è un vero e proprio delirio di onnipotenza della razionalità occidentale. Nella volontà — spesso implicita — di far coincidere la mappa col territorio vi è altresì tutta l’ansia o l’angoscia di dio, che modella l’altro a sua immagine e somiglianza. Così l’ansia o l’angoscia del ricercatore riduce l’alterità ad identità. Nel fare della mappa il territorio del territorio vi è tutta la patologia — onnipotente e quotidiana — della ratio. L’assimilazione della differenza — la sua traduzione in identità — produce omofonia. L’uguaglianza delle differenze — il rispetto delle loro alterità — libera le polifonie.

L’irriducibilità dell’alterità — quell’insuperabile plurivocità ed  eterovocità (Bachtin, 1990) — è esplicitamente riconosciuta quando si afferma la sua differenza.

Qualsiasi descrizione dell’oggetto è una sua trasfigurazione sim­bolica. L’oggetto non sarà mai rappresentabile dall’oggetto stesso, ma sempre da un passaggio di livello logico che è anche un passag­gio di livello comunicativo. È questo passaggio trasformato in codi­ce che si inscrive nella mappa.

L’interpretazione non si adegua all’oggetto: l’invera. Il processo di inveramento si verifica quando l’interpretazione è vista come ap­prossimativamente giusta dal lettore attraverso le forme della comu­nicazione, la selezione dei panorami, gli stili polifonici adottati. Per questo l’interpretazione è una trasfigurazione: le figure passano — transitano mutando codice — dal testo-Sào Paulo al testo-libro.

Ciò vuol dire che non vi è ricostruzione dell’oggettività senza soggettività: e che questa soggettività è anche astrazione, i cui livelli cognitivi sono plasmati da ragione ed emozione, riflessione ed espressione, il cui risultato finale sarà il transito verso una classe di concetti «altra». La trasfigurazione dell’oggetto-territorio in mappa-soggettiva è il risultato di questi passaggi.

Ma poiché ogni mappa non è solo il riflesso di un codice storica­mente dato (come il vecchio e nuovo storicismo si ostinano a farci credere), il ricercatore può trasfigurare l’oggetto mediando tra i co­dici dati e quelli che spingono verso l’innovazione; accettando alcu­ni tratti delle vecchie mappe e inventandone di nuovi. In altri ter­mini, alternando comprensibilità e incomprensibilità, tradizione e innovazione.

Quindi in ogni trasfigurazione non vi saranno solo le categorie conosciute, ma anche — in una qual certa misura variabile — la sog­gettività sperimentale del ricercatore. Di conseguenza, nel consulta­re la mappa finale il lettore non solo dovrà riconoscere il territorio, ma anche — in una certa misura — vederlo per la prima volta.

Tutto questo vuol dire che São Paulo è qui trasfigurata — dopo la parte iniziale saggistica — in un doppio codice iconico e lettera­rio, selezionato in un dato numero (27 topoi per 48 foto, che po­trebbero essere di meno o molte di più). La sua propria verità sta nella relazione tra scrittura della comunicazione urbana data e lettu­ra di una nuova trama narrativa sconosciuta.

E allora São Paulo — ma ovviamente non solo São Paulo — è comprensibile nella misura in cui sia il paulista che, ad es., il roma­no abbiano entrambi la possibilità di capire questa metropoli, in quanto arcinota o in quanto del tutto sconosciuta. In conclusione, capire São Paulo per un romano dovrà significare anche rivedere e ripensare Roma.

La trasfigurazione di una metropoli — o di un qualsiasi altro soggetto — in un numero di foto necessariamente limitato è sempre un punto inquieto, mobile, «squilibrato» tra l’interpretazione del soggetto-ricercatore e l’interpretazione di questa interpretazione che ne fa il lettore.

Ogni foto di un edificio è dì per sé una selezione soggettiva ed esemplare dell’oggetto, sia in quanto si trasferisce nella mappa quel­la cosa e non un’altra, e sia perché in ogni foto vi è sempre una let­tura parziale, soggettiva dell’oggetto, e mai l’oggetto stesso. Una sua riduzione, non solo come scala di grandezza, ma anche di signi­ficato. Anche la foto più realistica sarà sempre una mappa di un ter­ritorio irriducibile a carta stampata. Nelle foto non vi è l’oggettività di São Paulo, ma una sua riduzione che è sempre anche una sua par­ticolare interpretazione.

L’unico modo di descrivere São Paulo è di trasfigurarla. L’idea di poterla rappresentare nella sua «oggettività» è letteralmente inso­stenibile.

Questo problema è risolvibile esplicitando i criteri della mappa e non scusandosi di non aver allegato al libro l’intera São Paulo: per raggiungere tali obiettivi, nei prossimi capitoli ho cercato di assu­mere lo sguardo del cammelliere[4]  e lo stile dello storyteller.

DIALOGO TRA EDIFICI

 I palazzi, le strade, le piazze, gli iper-mercati o i piccoli negozi sono trattati come «pezzi di comportamento», bloccati nella loro costituzione architettonica o mossi nei flussi metropolitani — nel cronotopo - anche se apparentemente rimangono nello stesso Iuogo. Essi ci «parlano» anche sulla base della loro interazione — fatta di simmetrie e opposizioni — con altri «pezzi di comportamento» architettonico. Tra due edifici, quand’anche non contigui, vi può essere una relazione dialogica. Essi si “parlano” e il ricercatore deve scoprire e inserirsi dentro tale dialogo.

PUNTARE AL CUORE DELLA CITTA’

…ho orientato la ricerca, più che sul marginale, nel cuore della metropo­li. Come già detto, solo comprendendo questo cuore pulsante e tra­sformatore è possibile affrontare e risolvere i problemi dell’emargi­nazione, della discriminazione, della sofferenza — e non viceversa. Il metodo è rovesciato di nuovo. È il centro che «parla» della perife­ria e che la «contiene», anche perché tutte le periferie concorrono verso i tanti centri. L’analisi di questi poli-centri ci permette dì capi­re le modalità di trasformazione per tutto il resto, che deve essere studiato solo a partire da questa ricerca di base, contestuale. Studia­re il marginale senza collegarlo al centro o dandolo per acquisito significa, nonostante le migliori intenzioni, continuare a riprodurre la marginalità stessa.

È il punto alto del ciclo comunicativo urbano che ci fa capire — e quindi volendo, anche mutare — tutto il resto; così come è tutto il resto — i punti bassi o medi del ciclo urbano — che porta sempre e comunque la sua sfida al centro.

IL METODO E’ NELLA STESURA E NON NELLA RICERCA

Lo stile della scrittura deve essere in una qual certa misura adeguato all’oggetto delIa rappresentazione, la grande città. Per questo non è possibile dispiegare un solo avvio, ma una successione di avvii tra loro differenti. «Per Bateson il metodo non si esprimeva tanto in ciò che si fa sul campo, quanto in ciò che si fa con i dati, a tavolino» (Marcus, 1988: 295). Cioè è nella stesura e non nella raccolta che si produce il metodo.

Ovvero, sotto un altro punto di vista, il poetico e il politico dell’etnografia si concentrano nel modo in cui si trascrivono i dati raccolti sul campo.

QUEL CHE RESTA DELLA FLÂNERIE

Quel che resta della flânerie, che una città iper-veloce come São Paulo impedisce di realizzare all’esterno, è possibile praticare al suo interno [negli shopping center].

È veramente difficile camminare a São Paulo e forse è questo il motivo per cui pochissime sono le canzoni che cantano questa città e l’unica bella l’ha scritta il bahiano Caetano Veloso, affettuosamen­te abbreviata in Sampa: «alguma coisa acontece no meu coracão / que sò quando cruza a Ipiranga e a avenida São João / è que quando eu cheguei por aqui eu nada entendi / da dura poesia concreta de tuas esquinas / da deselegancia discreta de tuas meninas». Ma se camminare  è difficile — nao se pode flanar em São Paulo, dice anche Roger Bastide (1958:196) — nel senso appunto della flânerie - ben accelerato è il movimento nella strada che permette uno sviluppo percettivo e cognitivo dove si confondono o si riunificano le più estreme differenze.

GUARDARE VERSO L’ALTO

Per raffinare le capacità percettive, indirizzate alla comprensio­ne della comunicazione urbana, è fondamentale saper sviluppare un’abilità dell’osservazione che deve sapersi dirigere anche verso l’alto. A volte si scoprono proprio in alto, sopra palazzi con cui ab­biamo convissuto per decenni, alcuni segnali singolari e mai visti prima che improvvisamente ci rendono chiaro un ulteriore aspetto della città. Invece, per motivi di prudenza o di infelicità, in genere siamo abituati a camminare con lo sguardo basso sul marciapiede o parallelo, ad altezza d’uomo. Alzare lo sguardo, renderlo obliquo, trasversale o anche verticale migliora le prospettive, accentua gli in­croci, moltiplica le visuali. È uno sguardo polifonico adeguato alla città da osservare.

IL TERZO MARGINE DELLA STRADA

In un contesto americano, la nozione europea di comunità, già debole e regressiva quando apparve verso la fine dell’800 contrappo­sta a società, sembra inadeguata e patetica. Al suo posto, diventa sempre più visibile una mutazione inarrestabile che causa il collasso dei simboli in segni, trasforma il linguaggio per sequenze in simulta­neità: è l’emergere della comunicazione come «terzo margine della strada», lato nascosto o apparentemente secondario che rivela in tutta la sua essenzialità il suo potere segreto.

Rua Augusta contiene questo terzo margine della strada nel mi­scuglio della comunicazione che la attraversa. L’evocazione sulla vi­vibilità di uno stato comunitario pre-società serve solo a nascondere la verità di un periodo in cui tutti controllavano tutti, che non esi­steva separatezza né individualità, ma l’alleanza perversa tra un po­tere assolutista e patriarcale di tipo normativo e un controllo sociale «dal basso» degli impotenti tramite il pettegolezzo. Questo è ciò che felicemente manca nelle città americane come São Paulo: l’illusione — nel senso di falsa coscienza — di un’età dell’oro in cui la città po­teva essere un corpo unico, una grande madre protettiva e fusionale. La crisi del vivere urbano contemporaneo spinge ad idealizzare un passato inesistente, contrassegnato in realtà da un dominio sia dì classe, sia di sesso (patriarcale) e sia di età, introiettato e diffuso tra gli stessi subalterni. Le polimorfie e polifoniche manifestazioni possibili della comunicazione urbana, invece – con tutti i suoi inquinamenti simbolici e non – potrebbero permettere di passare ad un’ulteriore mutazione della tipologia metropolitana in parte già presente. Si tratta “solo” di liberarla dalle catene delle antiche comunioni tuttora esistenti e piene di sorpassati poteri.

OLTRE IL POSTMODERNISMO

Questa nostra fase non coincide con la fine della storia, la morte dell’arte, con la conseguente unica possibilità del citare i classici del­l’architettura. È anche il suo contrario. Non è il gioco fatuo della restaurazione di archi-a-volta, delle soluzioni già date, frammentate e de-contestualizzate. Il mondo non è solo lo scenario di infinite ci­tazioni da mischiare a proprio piacimento. In cui le carte sono quel­le e sono già state date. No. È facile e possibile giocare la quarantunesima carta, quella in più che non era mai stata giocata perché ine­sistente, almeno fino allora. O perché irregolare. E poi la quarantaduesima e via cosi. Le regole del gioco funzionano solo se decise ed accettate dai giocatori, altrimenti sono nulle. È ora che i testi urbani comunichino molti linguaggi nelle loro molte facciate. È ora che le possibili polifonie si innestino nel futuro, anziché nei restauri neo­barocchi o neo-romani.

POESIA E RAZIONALITA’: DIVERSIFICARE IL LOGOS

Un contesto metropolitano che vive «en perpetuelle transformation» è pensabile e rappresentabile solo moltiplicando i punti di vista sull’oggetto. Nel far questo, il metodo si fa po­lifonico; assume al suo interno le istanze metodologiche adeguate a dare un senso alle molte voci urbane. Il testo si apre. Non può non utilizzare la ricerca razionale come del tutto adeguata alla compren­sione del fenomeno urbano brasiliano, o meglio, di alcuni lati, an­goli, sfaccettature, prospettive. Nello stesso tempo si deve dare spa­zio percettivo alla comunicazione visuale. O a un tipo di espressivi­tà letteraria che — anziché separarsi, isolarsi — si compenetra, si ag­giunge alla «normale» interpretazione antropologica. Con la poesia, dice Dell Hymes, si può continuare a fare ricerca antropologica con altri mezzi (1986). Per salvare e godere la poesia non la si deve escludere dai circuiti logici.                                                                           ‘

I media non hanno annullato i poteri della città, accerchiandola e attraversandola, né ridimensionato le differenze tra metropoli, città, paese, villaggio: al contrario, essi hanno esteso la comunicazione metropolitana in ogni luogo come l’unica possibile fonte di pienez­za offerta per il consumo.

La parola concreto in portoghese ha un doppio significato. Essa significa anche cemento.

São Paulo è la città brasiliana dove maggiormen­te è stato usato il cemento per plasmare liberazioni espressive, an­che nei suoi aspetti amorfi, duri, sporchi, volutamente anti-estetici.

La poesia paulista, quindi, è doppiamente concreta. Vi è una simmetria polifonica tra incroci di parole e incroci urbani. Una «concorrenza» polifonica. Il concreto urbano è anche concreto poetico: è molteplicità dei linguaggi, una espansione e diversificazione del logos, e non una sua ritirata.



[1] Sono altresì convito che lo smarrimento non è la tappa fondamentale di una coscienza che perviene a se stessa solo attraverso il «superamento» della sua estraneazione. Nonostante il succedersi ordinato dei capitoli, quel senso pieno di fascino e di paura che caratterizza lo smarrimento rimane aperto e senza sintesi dall’introduzione alla conclusione.

[2] Sul rapporto sempre più intricato tra globalizzazione e localizzazione della cultura, ve­di l’ottimo numero della rivista «Theory, Culture and Society», diretta da M.Featherstone (1990), dal titolo Global Culture - Nationalism, Globalization and Modernity. In particolare il saggio di A.Appadurai.

[3] Con empatia si intende la solidarietà con la diversità e per questo è orizzontale, in quanto paritetica: essa colloca sullo stesso piano fusionale osservato e osservatore; mentre l’a­strazione verticalizza, cioè innalza i livelli teorici, discrimina, si distanzia dal suo oggetto per astrarne modelli, produrre alfabeti etnografici, di cui è possibile attenuare la durezza raziona­le con la tensione letteraria.

[4] II testo narrativo è interno all’esperienza del soggetto, la parola è data al punto di vista dell’osservato, la scelta degli indicatori è qua­litativa, apparentemente casuale, ma che è possibile che sia più rap­presentativa di quella presunta come oggettiva presentata in terza persona. […] Non cerco regole, non divido, elenco, quantifico, non voglio enucleare le strutture elementari o quelle complesse, inconsci collettivi o caratteri nazionali concentrati in quelli urbani. Quello che segue è uno dei tanti possibili percorsi che è possibile effettuare. È esperienza biografica, sensibilità estetica, sfida letteraria. È descri­zione e interpretazione. Soprattutto è comunicazione, un «ascolta­re» quel tipo di codici e messaggi che edifici, palazzi o rovine emet­tono in un preciso contesto urbano e in una particolare fase storica. […] L’interpretazione è distruzione.