Questo post è la seconda parte del saggio "Il quadrato semiotico degli ordinamenti spaziali". Eravamo partiti considerando il quadrato semiotico come un tool utile per trovare relazioni logiche tra i concetti che si desiderano utilizzare non auto-evidenti e contro-intuitive, inoltre abbiamo dimostrato come il suo fine sia prevalentemente ludico e antropologico. Greimas e Rastier pubblicano per la prima volta le sue regole in un numero di "French Yale Studies" dedicato al gioco e nell'introduzione affermano che il suo fine è largamente antropologico e in aperta sfida verso la critica letteraria. Siamo poi passati alla costruzione del nostro quadrato semiotico utilizzando i termini "spazio pubblico" e "spazio privato" come contrari, da qui, esaminando le relazioni di contraddizione, abbiamo ipotizzato che i termini "spazio sociale" e "spazio intimo" potessero essere considerati come la coppia di sub-contrari, i quali funzionerebbero, dunque, come uno spazio genericamente "non-privato" il primo e "non-pubblico" il secondo. Riteniamo che le conseguenze teoriche di questa organizzazione di concetti spaziali basilari siano solo appena esplorate e che debbano in futuro essere ulteriormente sviluppate. Il saggio prosegue indagando i "termini complessi", quelli risultanti dalla combinazione dei contrari e dei sub-contrari... buona lettura!

spazio della soggettività e singolarità

IL QUADRATO SEMIOTICO DEGLI ORDINAMENTI SPAZIALI

Sulle relazioni tra il comune, il pubblico, il privato e l’intimità

Daniele Vazquez

(nella gallery l’immagine del quadrato semiotico, step 2 di 3)

s1+s2

spazio eterogeneo della contemporaneità

 Dal costituirsi di una relazione di tipo “e… e” tra i contrari (s1+s2), ovvero dalla combinazione di “spazio pubblico” e “spazio privato” ne deriva un termine chiamato “termine complesso”. Se si prende in considerazione solamente la loro coesistenza nello spazio avremo l’organizzazione dello spazio della polis o, con alcune differenze, della res publica romana, partendo inoltre dalle indicazioni di Habermas e Arendt sui mutamenti di questi spazi nella modernità e continuando a ritenerli relativamente separati e coesistenti potremmo considerare il “termine complesso” anche lo “spazio della modernità” in quanto lo spazio così come prodotto dall’ascesa della borghesia. Ma se dal discorso di Habermas e Arendt ci muovessimo verso la letteratura contemporanea che si occupa della complessità cui è giunta la dicotomia spazio pubblico/spazio privato saremmo costretti a non considerare il termine come una semplice coesistenza nello spazio delle due sue classiche o moderne forme di organizzazione, ma di uno spazio eterogeneo, dove pubblico e privato si combinano in minor o maggior misura e in forme differenti a seconda delle culture e delle città del nostro tempo che desideriamo valutare.  

 Il termine complesso può essere positivo o negativo a seconda della predominanza dell’uno o l’altro dei due termini che entrano in composizione, oppure ancora essere considerato bilanciato. Se è a predominanza s1, ovvero “spazio pubblico”, si determina una situazione in cui molte prerogative dello spazio privato sono prese in carico dai poteri pubblici. Lo spazio della vita privata in questa combinazione risulta radicalmente ridotto. E’ chiaro che nello stesso momento in cui lo statuale interviene nell’occuparsi del benessere e della sicurezza della popolazione vi sono vantaggi e svantaggi, da una parte abbiamo effettivamente un progresso nella qualità della vita dei cittadini, in termini di istruzione, salute, tempo libero, qualità delle abitazioni, cura degli anziani, tutela dei disabili e dei bambini, emancipazione della donna ma il prezzo pagato per questi interventi pubblici in ambiti che fino ad allora erano rimasti nello spazio e nell’iniziativa privati o comunque non-pubblici è rappresentato dal fatto che lo statuale si dota contemporaneamente di strumenti che ampliano scientificamente a dismisura anche i suoi poteri di controllo e regolazione della vita[1]. E’ possibile immaginare anche una sfera pubblica non statuale (ma non per questo privata) che riduca altrettanto le prerogative dello spazio privato, ma giacché questa esiste pressoché solo come ipotesi e concretamente ancora in forme sperimentali espressione di nuove forme di spazio sociale che non hanno maturato del tutto un vero e proprio potere pubblico in grado di affermarsi dentro, a lato o contro quello consolidatosi come statuale non prefigureremo per ora questo scenario. Quello che si può già dire su questo spazio pubblico non statuale (laddove non significa presa in carico del pubblico da parte dei privati), guardando alle sue forme germinali,  è che si tratta di forme di autogoverno che diversamente da quelle che vedremo in seguito non elimina del tutto la sfera privata, che in qualche modo la riduce ma allo stesso tempo la tutela. Queste forme di autogoverno leggero rifiutano la dimensione dialettica e conflittuale e nel rifiutare lo statuale ne trattengono però la funzione di mediazione tra le classi. Fanno appello alla società civile, ai cittadini, alla cittadinanza da cui lo spazio pubblico statuale deriva i suoi poteri ma che rappresenta sempre meno. Mentre le autentiche forme di autogoverno rifiutano sia il pubblico che il privato, queste forme di autogoverno intendono preservare entrambe le sfere, ci sembra di poter dire, dunque, che si tratta di una nuova forma di autogoverno cresciuta progressivamente all’interno dello stile di vita e del modo di pensare tipico della classe media man mano che le sue aspettative di benessere sono state tradite dalla crisi del capitalismo[2]. Se la combinazione del termine complesso è a predominanza s2, ovvero “spazio privato”, avremo una situazione in cui molte funzioni dei poteri pubblici sono prese in carico dai privati, in cui le amministrazioni pubbliche rispondono sempre di più al profilo di istituzioni regolate dal diritto privato, in cui le decisioni di interesse pubblico sono negoziate dalle istituzioni con soggetti privati in un contesto economico in cui gli interessi di questi ultimi tendono a prevalere. Lo spazio pubblico muta di conseguenza, in questi casi è sempre più contraddistinto da limitazioni nell’accesso, la cui frequentazione diviene selettiva e la circolazione regolata e controllata. Si tratta di uno spazio che esclude e include in base a criteri economici, etnici e culturali, dove lo spazio pubblico è sempre meno espressione della società e dove questa sempre più si manifesta, alla lettera, nello spazio del mercato. In effetti in questa situazione il mercato è uno dei pochi luoghi in cui si dà ancora uno spazio sociale. Lo spazio sociale vi rimane confinato dovendone accettare le regole, tanto che se non scompare del tutto è proprio perché è divenuto diretta espressione dello spazio del mercato. L’utopia del mercato come regno della libertà immagina la vita privata esclusivamente come la vita dell’individuo senza considerare che è, diversamente, anche la vita della famiglia. Ed è proprio la famiglia, intesa antropologicamente come sistema di alleanze, che fa di ciascuno un individuo che appartiene a due mondi, a se stesso e al proprio sistema di alleanze. È proprio questo doppio statuto della vita privata, individuo e famiglia, che ha sempre ostacolato e sempre ostacolerà l’utopia degli economisti di uno spazio democratico dominato dagli interessi privati e individuali. Ovviamente, come si può ipotizzare e talvolta constatare in via germinale uno spazio pubblico non statuale così è ipotizzabile uno spazio privato senza la famiglia intesa come sistema di alleanze o come struttura sovra-individuale cui si appartiene prima di ogni altra struttura, uno spazio privato costituito solo da individui. Questa forma di individualismo liberale diversamente dalle forme di individualismo anarchico che non prevedono né il pubblico né il privato cerca di preservare in qualche modo entrambe le sfere, lo spazio pubblico come mercato - in cui lo statuale vi è previsto solo come garanzia contro coloro che non rispettano le proprietà e la sicurezza degli individui - e lo spazio privato come un mondo dove riparare, dove è riservato un posto anche alle passioni anti-utilitarie. Approfondiremo questi argomenti trattando della deissi spazio privato/spazio intimo e della relazione contraddittoria spazio privato/spazio sociale.

Quanto alla situazione bilanciata, la relazione spazio pubblico/privato perfettamente equilibrata funziona come lo stato di natura negli autori che si sono cimentati sull’origine del contratto sociale, si presume sia esistita perché in entrambi i casi che abbiamo visto, di una predominanza del pubblico sul privato o del privato sul pubblico s’immagina che la situazione originaria fosse una loro perfetta coesistenza. Da una parte il pubblico, statuale o società civile, dall’altro il privato, mercato popolato di individui che rispondono contemporaneamente a un sistema di “parentele” o meno:  occorrerebbe immaginare una situazione di equilibrio tra queste forze contrarie, una situazione in cui società civile, stato, mercato, individuo, sistema di famiglie trattengano in modo giusto ed equo le loro prerogative, in una leale e corretta armonia che non permettesse a l’una di interferire e compromettere lo spazio delle altre. Questa ipotesi metterebbe in imbarazzo chiunque.

s2 + s1:

spazio del comune

spazio dell’utopia

 Dalla combinazione dei termini dell’asse dei subcontrari (s2 + s1) avremo un termine chiamato “termine neutro” (anche se di neutro non ha nulla). Si tratta di una combinazione che corrisponde a un spazio né pubblico né privato, spazio che è stato spesso considerato “lo spazio del comune”, ma che va considerato anche lo spazio per eccellenza dell’utopia.

Il cosiddetto “termine neutro”, la combinazione dei sub-contrari, può essere anch’esso positivo o negativo, oppure ancora bilanciato. Si tratta in ogni caso di uno spazio in cui non è immaginabile alcuna proprietà pubblica o privata. Ciò che abbiamo visto accadere nella fabbrica a proposito del consiglio operaio, ovvero la genesi di un nuovo spazio sociale attraverso la lenta erosione dall’interno dello spazio privato del capitalista, fino al costituirsi spontaneamente di veri e propri poteri pubblici in contraddizione con quelli espressi dalla società borghese. Ciò che abbiamo descritto come uno spazio sociale la cui maturazione arriva fino al punto di mettere a rischio o delegittimare qualsiasi pretesa, divenuta improvvisamente astratta e poco comprensibile, del proprietario, sia su quello spazio sia sulla potenza sociale che la costituiva, è un movimento tipico di ogni spazio sociale che integri anche le soggettività di chi lo produce. Laddove uno spazio sociale è relativamente libero di prosperare e disseminarsi, laddove le maglie della legge sono sufficientemente larghe da non poterlo regolamentare del tutto giacché divenute inadeguate dinnanzi alla nuova situazione, laddove giunga a produrre soggettività finirà per manifestarsi come “spazio del comune”. Ciò che si è verificato innumerevoli volte, in circostanze, luoghi ed epoche molto diverse tra loro è che lo spazio sociale dove trova le condizioni di prosperare finisce per delegittimare la proprietà pubblica o privata dall’interno e allo stesso tempo tende a sfuggire alla sua riduzione allo statuale, ovvero alla riduzione del suo carattere di molteplicità ad uno, stato o individuo. Ciò che accade sempre in questi casi è che si stabilisce un rovesciamento della logica proprietaria, durante questo movimento tale logica appare sempre più innaturale, astratta e lontana dalla realtà. Lo spazio sociale che produce soggettività ha una spontanea disposizione a vedere il mondo a rovescio e a considerare naturale il primato dell’uso, del godimento e dell’esperienza effettiva dei beni e dello spazio. Quell’uso, esercizio e  godimento di beni e spazi previsti da “istituti giuridici barbarici” come il Mir russo, la Marke germanica, la Dessa giavanese, il Township britannico, la Allmend svizzera, l’Almaenning svedese, l’Almindinger norvegese, la Zadruga balcanica, le Partecipanze e le Comunanze italiane[3],  e che sono apparse durante tutto il XIX secolo come delle anomalie da addomesticare e che sono state, di fatto, giuridicamente addomesticate sfavorendo la loro dimensione collettiva indivisa a favore della proprietà privata, hanno fatto prevalere per secoli il fattuale contro ogni pretesa di proprietà, pubblica o privata. Qui non c’interessa dimostrare che l’incessante e proliferante lavorio dello spazio sociale che produce soggettività si adoperi segretamente a ripristinare condizioni originarie poste in uno stato di natura o in un’età dell’oro, o più realisticamente per l’occidente nelle società dell’Europa antica studiate dalla mito-archeologa Marija Gimbutas[4], o sia, diversamente, una potenza che ancora non si sia mai del tutto affermata nelle civiltà umane, qui è importante rilevare un doppio movimento: sia communalia di fatto che vengono cooptate progressivamente dai civilizzati all’interno della logica binaria pubblico/privato sia un divenire insopprimibile che prim’ancora di raggiungere il conflitto aperto, situazione che richiede uno spazio sociale soggettivizzato che abbia sviluppato una potenza tale da poter affrontare direttamente ciò che la nega, si è sempre presentato nella forma di una lenta e inesorabile sottrazione di spazi, cose e poteri dall’interno della proprietà pubblica e privata, intervenendo sulle loro inerzie, vuoti, distrazioni, amnesie, negligenze. L’uso e il godimento continuato di beni e spazi tende a sottrarli come un fatto del tutto naturale al loro proprietario pubblico o privato avendoli mutati in qualcosa del tutto diverso, al punto che questi non dovrebbero essere più regolamentabili secondo le condizioni disposte all’inizio. “La terra a chi lavora” non è solo una rivendicazione immemorabile che ha attraversato tutti i movimenti che erano giunti a questa percezione dei beni e della terra  come spazio del comune, ma porta anche con sé la lezione che l’uso e il godimento, laddove non si voglia ammettere il loro statuto di dimensione originaria, producono comunque un nuovo spazio con regole proprie, sedimentate nei secoli attraverso la ripetizione e la consuetudine, che delegittimano quelle precedenti. E’ possibile immaginare questo aspetto del doppio movimento dello spazio del comune in diversi ambiti della specie, erodere dall’interno le leggi divine, erodere dall’interno le leggi del sovrano, erodere dall’interno le leggi della borghesia, si tratta di una rivoluzione culturale senza fine, con contraccolpi, restaurazioni, riprese del movimento di sottrazione e di restituzione. Riteniamo di poter dire che le prerogative di uno spazio del comune siano, dunque, quelle di uno spazio sociale che produce soggettività e che laddove sia stato già cooptato, continua a sottrarre spazi alle proprietà pubbliche e private, spazi autogovernati che finiranno prima o poi per entrare in conflitto con le forme proprietarie che ne limitano la prosperità raggiunta, che sono preventivamente organizzati contro la possibilità dello statuale, le cui regole rovesciano la corrente percezione del rapporto uomo-cosa o uomo-spazio. Ritroviamo questo divenire in innumerevoli movimenti dei contadini, tuttavia lo spazio del comune non è prerogativa esclusiva dello spazio rurale e non è limitabile oggi a ciò che si intende correntemente con “beni comuni”. Questo divenire ha trovato nuove forme urbane nella modernità con il movimento operaio e altrettante nuove forme urbane nella contemporaneità, attraverso la rivendicazione di un diritto alla città, attraverso i movimenti delle occupazioni, attraverso pratiche quotidiane che erodono ovunque l’ordinamento pubblico e privato degli spazi urbani e che continua a ripresentarsi, in modalità impressionanti per similitudine, negli spazi digitali. I social network sono spazi sociali soggettivizzati che prosperano su spazi digitali privati. La vertiginosa propagazione del loro uso e godimento avviene per via di una generalizzata amnesia sul fatto che si tratti di spazi altrui concessi e in cui si è ospitati.  Verrà il momento in cui questa contraddizione verrà del tutto allo scoperto, in cui chi ha prodotto lo spazio sociale digitale soggettivizzato attraverso il suo uso e godimento troverà insensato che possa trattarsi solo di uno spazio altrui concesso per farlo fruttare. Non vorrà dire la vittoria dello spazio del comune, ma il verificarsi di un contraccolpo che si vede già arrivare da lontano che rideterminerà del tutto le condizioni della vita digitale. Lo spazio del comune in cui l’uso e il godimento dei beni hanno il primato su qualsiasi pretesa da parte di una proprietà pubblica o privata non prevede al suo interno uno spazio privato, non per questo non vi sono spazi per l’espressione delle singolarità, ma in questa particolare declinazione del comune, dove lo spazio sociale è predominante, la produzione di singolarità non è un’avventura del tutto solitaria pur essendo questa il prerequisito perché vi sia autentica socialità. Infatti, se tra coloro che sono del tutto differenti, ammesso che sia possibile, non si avrà neanche un linguaggio per intendersi, tra coloro che sono del tutto uguali il linguaggio diviene del tutto ininfluente in quanto non si avrà più nulla di significativo da dirsi. Pertanto prerequisito dello spazio del comune è che le singolarità che lo abitano siano sufficientemente differenti, abbiano uno spazio della soggettività che qui abbiamo individuato nello spazio intimo, sufficientemente sviluppato per rinnovare sempre il piacere e il desiderio di produrre società, ma non fino al punto in cui differenza e soggettività volgano la singolarità contro la stessa vita associata come nei romantici. Nonostante i numerosi studi scientifici a favore, da quelli di Henry Maine e Émile de Laveleye in poi, qui non vogliamo dimostrare che lo spazio del comune sia lo spazio originario della specie, ma che senz’altro sia uno spazio che si realizza continuamente di straforo, ovunque, alle volte manifestandosi con forza, reclamando per sé intere città o regioni, come nella Comune di Parigi o nelle terre collettivizzate dagli anarchici in Spagna, oppure sopravvivendo come anomalia accanto al pubblico e al privato, sempre minacciato di essere cooptato in una delle due forme di proprietà dominanti.

Se lo spazio del comune è a predominanza di spazio intimo avremo uno spazio radicalmente differente da quello appena visto, qui è il mondo delle soggettività, delle passioni, dei sentimenti, degli affetti, dei piaceri e della cura dei corpi che rivendica tutto lo spazio della società. Per la Arendt una situazione del genere sarebbe a danno della certezza del mondo, sarebbe la vittoria della soggettività e delle differenze sull’organizzazione duratura dello spazio sociale ed, eventualmente, dello spazio pubblico. Questa declinazione dello spazio del comune sarebbe continuamente sottoposta alle oscillazioni del desiderio delle singolarità riunite sulla base del solo desiderio stesso. La Arendt scrive: “mentre l’intimità di una vita privata completamente sviluppata, quale non si era mai conosciuta prima dell’avvento dell’era moderna e del concomitante declino del dominio pubblico, intensificherà sempre più e arricchirà l’intera scala delle emozioni soggettive e dei sentimenti privati, questa intensificazione si attuerà sempre più a danno della certezza della realtà del mondo e degli uomini”[5]. Se lo spazio comune a predominanza di spazio sociale è determinato dall’uso e dal godimento di cose e spazi senza alcuna limitazione se non le regole stesse che la società stessa si è data e continua a darsi, se è il rapporto dell’uomo con il regno delle cose e del loro sistema di riferimento spaziale che produce a cambiare, nello spazio comune a predominanza di spazio intimo è il rapporto dell’uomo con le soggettività che produce a cambiare. Si tratta di una socializzazione dei desideri, dei sentimenti, delle emozioni, degli affetti, di una messa in comune delle soggettività, di una società fragile la cui unica certezza deriva dall’intersoggettività e da un consenso che va di giorno in giorno, di ora in ora ristabilito. Qui vi è il primato dei piaceri del corpo o del mondo spirituale sulle cose, il cui uso e godimento è finalizzato a potenziare i corpi e le sue possibilità o il mondo interiore e la sua ricchezza. L’irrazionalità o l’iper-soggettivismo di questo spazio del comune lo porterebbe ad autodistruggersi in breve tempo se non vi fosse una qualche forma di “desoggettivizzazione”, così come prevista da Deleuze e Guattari, due autori che hanno molto insistito sulla natura comune dei desideri[6], un fuori, un qualche luogo che ecceda la soggettività di ciascuno sul quale garantire allo spazio sociale una certa stabilità e durevolezza. Questo spazio del comune è uno spazio dionisiaco o mistico che ha avuto sempre esistenza difficile, anarchica, episodica, clandestina, sotterranea, la sua intensità è tale che ha sempre minacciato l’ordine del mondo più di qualsiasi altro tipo di spazio. In nessun altro spazio uomini e donne sono tanto vicini, il pubblico così disprezzabile e il privato così insignificante, eppure il suo ordinamento è potuto sopravvivere solo attraverso il segreto e il nascondimento o l’allontanamento e l’isolamento, perché si tratta di uno spazio del tutto fuori controllo. Ogni regolamentazione pubblica è un interferenza che ne spezza la possibilità stessa di esistere, ogni egoismo privato lo corrompe, rende le sua passioni fraudolente e ne delibera il fallimento, inoltre, un ampliamento delle prerogative dello spazio sociale lo porterebbe allo scoperto per regolamentarlo a danno del suo fondamento irrazionale o iper-soggettivistico da cui trae tutto il suo godimento. E’ uno spazio sempre esistito e che sempre esisterà, lo spazio più pericoloso, perché non conosce regole se non quelle che si dà al momento e che continuamente rimette in questione.

Lo spazio del comune è anche lo spazio delle utopie, qui il comune perde la sua prerogativa di forza generativa sempre in tensione e viene cristallizzata, le utopie tendono a tradire la reale esperienza del comune, a ridurne la ricchezza e a fraintenderne gli aspetti realmente desiderabili. Nelle utopie con una predominanza dello spazio sociale a discapito dello spazio intimo abbiamo uno spazio fortemente caratterizzato dalla messa in comune di ogni aspetto della vita, dal lavoro alla riproduzione della specie. La collettività si prende cura dell’educazione dei figli sottraendola alla famiglia e, talvolta, le stesse relazioni sentimentali non sono mai considerabili come del tutto esclusive. Lo spazio per l’individuo è ridotto al punto in cui non si può esercitare alcuna prerogativa della singolarità e il rapporto con le cose è sempre mediato in qualche modo dalla collettività in cui si vive. La maggior parte delle utopie hanno queste caratteristiche, dalla legislazione della Basiliade di Morelly in Codice della Natura[7] o all’ancora più radicale Le Vrai Système ou le mot de l’énigme métaphysique et morale di Léger-Marie Deschamps[8]. Queste utopie immaginavano degli spazi del comune che seguissero alla lettera quelle che all’epoca si ritenevano fossero le leggi della natura, così rozzamente egualitarie che prevedevano case e abbigliamento uguali per tutti, in cui le sole differenze fossero l’età e il sesso e il cui unico modo di distinguersi fossero la solerzia e l’altruismo nel lavoro o il talento nelle attività produttive scientifiche. Va considerato che quando furono scritte rispondevano a un desiderio di riscatto, a uno stile di vita ritenuto giusto e per l’epoca realmente desiderabile, solo con il romanticismo e la rivolta dell’individuo contro la società è apparso chiaramente il rischio che nascondevano nel caso si fossero realizzate, ovvero delle società profondamente conformiste e autoritarie. Se la combinazione è a predominanza di spazio intimo abbiamo utopie che hanno cercato di trovare un ordinamento dello spazio dominato dalle differenze, dalle passioni, dai sentimenti, dagli affetti, dai piaceri e dalla cura del corpo o dello spirito. Fourier che aveva pensato un’utopia a predominanza di spazio sociale è anche uno dei maggiori autori di un’utopia a predominanza di spazio intimo, il suo capolavoro in tal senso è “Il nuovo mondo amoroso”[9]. Ma di utopie che prevedono questa combinazione ve ne sono anche di più antiche, si pensi alla Abbazia di Theleme nel “Gargantua e Pantagruele” di Rabelais[10] dove all’entrata è scritto: “Fai ciò che vuoi”. La fragilità e i rischi di un mondo basato sull’amore e il desiderio li ritroviamo nelle sue versione distopiche, nelle micro-società che si raccolgono nei castelli dei romanzi di Sade[11], in cui le passioni, autentiche o fraudolente, finiscono per occupare tutto lo spazio della vita, stravolgendo ogni regola sociale, fino all’autodistruzione dello spazio intimo stesso.

s1 + s2

spazio del socialismo statuale

o  della società senza stato

Dalla combinazione del termine s1, spazio pubblico, e del termine s2, spazio sociale, ovvero la deissi positiva, abbiamo a seconda dell’intensità del termine s1, il socialismo statuale o una società senza stato.

 Se tutta la società coincide con lo spazio pubblico e per pubblico s’intende unicamente lo statuale abbiamo il socialismo statuale, ovvero uno spazio sociale totalmente mediato dai tecnici e manager dello stato e dalla burocrazia, così come nel ‘39 fu denunciato da sinistra dal marxista Bruno Rizzi nel saggio “La burocratizzazione del mondo”[12] e da destra dal saggio “La rivoluzione manageriale”[13] del maccartista ex-marxista James Burnham - il cui lavoro così come dimostrato da numerosi studiosi di scienze politiche è un plagio spudorato del libro del meno famoso Rizzi -. Le posizioni di Rizzi contro questa combinazione che prevedeva anche lo stato fascista e l’economia americana statalizzata hanno avuto grande influenza anche sul gruppo francese “Socialisme ou barbarie”  e su Guy Debord[14] che ne scrisse la presentazione per l’edizione francese pubblicata da Champe Libre nel 1976, senza contare la grande influenza che ebbe sul George Orwell di 1984. Se l’intensità del termine spazio pubblico è minima è ipotizzabile una società in cui lo statuale essenzialmente non esiste, vi sono stati pochi, fuggevoli ma significativi esempi nella modernità, dalla Comune di Parigi alle brevi esperienze di socialismo consiliare o collettivismo anarchico, sulle quali la Arendt ha scritto: “Oggi gli operai non sono più estranei alla società; sono i suoi membri e sono lavoratori dipendenti come tutti gli altri. Il significato politico del movimento del lavoro è ora lo stesso di quello di ogni altro gruppo di pressione; è passato il tempo in cui, come è stato per quasi cent’anni, esso poteva rappresentare il popolo nella sua totalità – se intendiamo con le peuple il reale corpo politico, distinto come tale dalla popolazione così come dalla società. (Nella rivoluzione ungherese gli operai non erano in alcun modo distinti dal resto della popolazione; quello che dal 1848 al 1918 era quasi un monopolio della classe operaia – la nozione di un sistema parlamentare basato sui Consigli invece che sui partiti – era diventata la richiesta unanime di tutto il popolo.)”[15]. Oppure: “…le rivoluzioni popolari, per più di cent’anni ormai, hanno prodotto, benché mai con successo, un’altra forma di governo nuova: il sistema dei consigli popolari, in sostituzione del sistema partitico continentale, che era screditato, si sarebbe tentati di dire, ancor prima di nascere. I destini storici delle due tendenze della classe operaia, il movimento sindacale e le aspirazioni politiche popolari, non potrebbero essere più contrastanti: i sindacati, cioè la classe operaia in quanto è solo una delle classi della società moderna, sono passati di vittoria in vittoria, mentre nello stesso tempo il movimento politico del lavoro è stato disfatto ogni volta che ha osato avanzare le sue richieste, distinte dai programmi di partito e riforme economiche”[16]. Quando la Arendt scrive di “società” noi traduciamo con “società con un’alta intensità di pubblico inteso come statuale” e quando parla di “popolo” o “popolare” con “una società con una bassa intensità di pubblico inteso come statuale”. Ci sembra corretto interpretare questo passaggio a sostegno della tesi che la classe operaia e la forma di autogoverno che ha spontaneamente inventato siano una forma di società a bassa intensità di statuale.

(Continua…)



[1] Foucault M., Sicurezza, territorio, popolazione. Corso alla Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, 2005 Milano.

[2] Bianchetti C., Il novecento è davvero finito. Considerazioni sull’urbanistica, Donzelli, 2011, Roma.

[3] Grossi P., Un altro modo di possedere, Giuffrè, 1977, Milano; Grossi P., “La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico”, in Quaderni fiorentini n. 17, Giuffrè, 1988, Milano. Questa parte del saggio è stata sviluppata a seguito delle amabili discussioni avute nella scuola di dottorato in Urbanistica dello IUAV con la giurista Teresa Lapis.   

[4] Gimbutas M., Il linguaggio della dea, Venexia, 2008, Roma; Tiddi A., Le origini dell’Europa antica, 2010, In Cinere Ignis edizioni, Roma.

[5] Arendt H., Vita activa: la condizione umana, Bompiani, 2009, Milano, p.37.  

[6] Deleuze G.-Guattari F., L’anti-Edipo, Einaudi, 1977, Torino;  Deleuze G.-Guattari F., Mille Piani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1987, Roma

[7] Morelly, Codice della Natura, Einaudi, 1975, Torino.

[8] Deschamps L. M., Un’utopia senza domeniche, Libreria dell’orso, 2003, Pistoia.

[9] Fourier C., Il nuovo mondo amoroso, ES, 1999, Milano

[10] Rabelais F., Gargantua e Pantagruele, Sansoni, 1988, Firenze.

[11] Sade D. A. F., La filosofia nel boudoir, ES, 1992, Milano.

[12] Rizzi B., Il collettivismo burocratico, Sugarco, 1977, Milano.

[13] Burnham J., La rivoluzione manageriale, Bollati Boringhieri, 1992, Torino.

[14] Questa presentazione si trova in un’edizione del libro di Rizzi più accurata e recente: Rizzi B., La burocratizzazione del mondo, Colibrì, 2002, Paderno Dugnano (MI).

[15] Arendt H., op. cit., p.161.

[16] Arendt H., op. cit., p. 159.