La rimodulazione della metropoli, forma organizzativa totale che implica stili di vita, economia produttiva, flussi finanziari e informativi, è una realtà che attraversa la società contemporanea, in maniera talvolta più diffusa e radicale di quanto testimonino il sistema dell’informazione e l’industria dell’intrattenimento, quest’ultima tuttavia spesso un passo in avanti rispetto agli altri segmenti del sistema dei media.

detroit, foto di Marchand-Meffre

La rimodulazione della metropoli, forma organizzativa totale che implica stili di vita, economia produttiva, flussi finanziari e informativi, è una realtà che attraversa la società contemporanea, in maniera talvolta più diffusa e radicale di quanto testimonino il sistema dell’informazione e l’industria dell’intrattenimento, quest’ultima tuttavia spesso un passo in avanti rispetto agli altri segmenti del sistema dei media. Nel 2011 le statistiche registrano il superamento, su scala planetaria, degli abitanti delle aree urbane rispetto a quelli di campagne e luoghi non ancora raggiunti dalla cosiddetta civiltà avanzata. Nel suo recente saggio, Apocalypse town. Cronache dalla fine della civiltà urbana (Laterza, pp. 244, euro 13), Alessandro Coppola descrive un itinerario  di rovine urbane, case infestate da piante rampicanti, strisce d’asfalto con aperture simili a ferite attraversate da animali selvatici, grattacieli vuoti popolati da un’umanità stremata. Non è l’incipit di un romanzo apocalittico: le rovine descritte sono quelle di Youngstown, Ohio, uno dei poli della “Rust Belt”, la cintura della ruggine, che insieme a città come Buffalo, Detroit, Cleveland e Philadelphia, stanno vivendo da decenni, a causa della chiusura delle fabbriche, una crisi irreversibile e trasformazioni impreviste. Territori urbani dove le amministrazioni comunali pianificano la dismissione della città, con gli abitanti che si trasformano in attivisti del riciclo e della decostruzione. Sono scomparsi negozi e supermercati, nascono imprese agricole. A Cleveland si va configurando un nuovo paesaggio con profili ridisegnati dalla storia e dall’ostinazione, persone che immaginano forme di sopravvivenza, visionari che credono a nuove possibilità ai margini dei grandi flussi dell’economia globale. In queste aree di abbandono, scrive Coppola “non è facile vivere. E a ben vedere non è neppure economicamente vantaggioso. Più complessivamente, vivere in un «ghetto urbano» costa di più che vivere in un quartiere di classe media. Comprare o affittare una casa costa, in termini assoluti, di meno. Ma acquistare beni e servizi indispensabili – quali cibo o assicurazione – è senza dubbio più caro nonché più faticoso. Gli abitanti dei quartieri a basso reddito – afferma una ricerca realizzata a Baltimora – sono overpriced and underserved, spennati e sotto-serviti”. La spiegazione di questa mutazione in corso non è soltanto nella delocalizzazione della produzione industriale. Un’altra causa è infatti il fenomeno del suburbio, il lento e costante insediamento fuori dal centro urbano di decine di milioni di cittadini, bianchi e protestanti, che dal dopoguerra hanno rinunciato alla città per le villette con giardino, in una sterminata periferia raggiungibile solo con l’automobile. Unico spazio sociale i centri commerciali sempre più grandi e distanti. Si ricompone così una geografia della povertà e della ricchezza: i bianchi agiati nei sobborghi periferici e i poveri neri, ispanici e asiatici nei quartieri ghetto della città abbandonata.

Questo movimento antiurbano è stato ulteriormente sostenuto dalla recente crisi che ha colpito i beni immobiliari rendendone impossibile il recupero economico. L’aspetto interessante e politicamente rilevante del saggio di Coppola risiede nell’ipotesi che queste archeologie urbane possano rivelarsi, nel tempo, una buona occasione per inventare nuovi modelli di sviluppo. Un insieme di ipotesi, di progetti, di idee che possano dare concretezza alla cultura - finora troppo spesso ideologica - di una decrescita virtuosa. Che l’erosione della metropoli industriale possa dar vita a numerosi germogli di città intelligente, puntando a organizzazioni essenziali e al risparmio delle risorse. Attraverso il recupero sistematico di edifici da parte di associazioni di volontari e poi delle istituzioni che si sono accorte dei vantaggi, la decostruzione urbana si sta trasformando in un affare altamente remunerativo sul piano economico. Buffalo, da santuario della vecchia cultura industriale è diventata la capitale di questa riconversione e Baltimora si è trasformata in pochi anni nella città dei festival, attraendo milioni di turisti nel porto industriale trasformato in parco di divertimento e area commerciale.

La situazione è tuttavia ancora complessa e contraddittoria: a pochi chilometri di distanza i ghetti restano in mano a bande criminali che ne hanno fatto il regno dello spaccio di droga. Uno dei capitoli più interessanti di Apocalypse town  riguarda il tema del cibo e della fame, dove si sottolinea come i ghetti urbani siano diventati dei deserti alimentari, spesso ignorati dalla catena distributiva, i supermercati si sono spostati all’esterno mentre permangono solo le catene di fast food. Le classi povere mangiano male e al loro interno si riscontra la maggiore concentrazione di obesità. Per contrastare questo problema si sta diffondendo una reazione sociale rappresentata dalla rinascita dell’agricoltura urbana e delle tradizioni alimentari locali. La conclusione di Alessandro Coppola apre ad una visione di speranza: “È così che la Rust Belt urbana diviene una nuova frontiera, questa volta tracciata nel cuore stesso della vecchia America, che ha bisogno di una nuova generazione di pionieri. Un territorio da ricolonizzare, per gettare i semi di una civiltà che faccia di un nuovo rapporto con il mondo naturale il migliore pretesto per una diversa relazione fra gli umani”. Un’ultima considerazione va fatta sul titolo del volume. Se da un lato risulta efficace il richiamo all’Apocalisse da parte di un Coppola omonimo del regista, suscita qualche dubbio se queste cronache, efficaci e ben documentate, rappresentino davvero “la fine della civiltà urbana”. Una lettura attenta, comparata ad analoghi saggi, non trascurando narrazioni letterarie o cinematografiche, indurrebbe a pensare più che ad una fine dell’organizzazione della metropoli, così come si è configurata nell’era industriale, in una nuova configurazione che assuma funzionalmente le mutazioni economiche, culturali, le nuove forme di produzione del senso e del consumo, la dimensione immateriale e gli immaginari utopici e visionari. Ma tutto rimane in un complesso intreccio di relazioni tra una nuova forma di dominio economico-finanziario e affermazione di nuove singolarità qualitative. Nei territori della metropoli in mutazione si manifesta oggi lo scontro tra sottomissione a forme della produzione e dei servizi, sempre più opache e spietate, e tentativi frammentari di sottrazione non più rappresentabili nelle forme tradizionali della politica.

Nando Vitale