Se la funzione più arcaica dell'opera d'arte non fosse stata quella cultuale e rituale, ma quella ludica, ricreativa e della cura del sé, se l'aura non avesse mai avuto natura magico-religiosa ma fosse un prodotto squisitamente sociale e relazionale, se il sacro non precedesse il profano ma fosse esattamente il contrario e se la sua produzione dipendesse più dall'organizzazione spaziale e posizionale di un gruppo sociale o di una società che dalla loro sovrastruttura simbolica, se la tradizione non garantisse la permanenza nel tempo dell'integrità dei materiali culturali ma fosse un sistema di dispositivi che li elabora e innova continuamente assicurando contemporaneamente la percezione di un lento divenire del tempo o di un divenire-lento del tempo, se, inoltre, fosse spesso un'invenzione recente, se non recentissima, come guarderemmo alle tesi sulla decadenza dell'aura dell'opera d'arte nell'epoca della riproducibilità tecnica di Walter Benjamin? I prossimi due post sono dedicati a queste ipotesi e alle loro conseguenze, si tratta di due capitoli che hanno la tipica ruvidità e incompletezza delle idee scritte di getto e mai editate, né noi né Nito Contreras abbiamo mai ritenuto di doverle approfondire ulteriormente. Il testo che segue è inseparabile dal prossimo sull'origine spaziale e posizionale del sacro. Buona lettura... 

archipenko, donna che cammina, 1918

L’aura e l’invenzione della tradizione

Le tesi di Walter Benjamin sulla decadenza dell’aura dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica sono molto note. Queste tesi non ci trovano del tutto d’accordo e vedremo per quali ragioni. Innanzi tutto cos’è l’aura di un’opera d’arte? Essa per Benjamin dipende dall’unicità e irripetibilità del gesto artistico, dal fatto che il momento della creazione artistica avviene nel qui ed ora.

Il genio artistico in questa prospettiva si presenta come l’archetipo stesso della creazione divina, se un rituale attraverso la ripetizione rende partecipe una società della creazione del cosmo avvenuta in illo tempore, riattualizza il momento della creazione avvenuto nel tempo mitico in cui il caos fu trasformato in cosmo, l’artista, in particolar modo nella concezione moderna, vi partecipa non per ripetizione ma attraverso identificazione e differenza allo stesso tempo. Identificandosi in quanto individuo socialmente riconosciuto come eccezionale, in quanto genio, nell’originaria ispirazione divina stessa che produsse il cosmo e distinguendosi arbitrariamente allo stesso tempo dal resto della comunità umana.

La sua creazione sarebbe un gesto che dà autorità alla cosa creata, essa non ripeterebbe una creazione già avvenuta in illo tempore, ma ne realizzerebbe una nuova, nell’hic et nunc, parteciperebbe della creazione divina continuandone il miracolo, quello della trasformazione del caos in cosmo, dell’informe in forma, ripristinandone la suggestione e rigenerando la forza di tale narrazione. Ma, individualmente e non comunitariamente.

L’aura dell’opera d’arte deriverebbe da questa innovazione che apporta alla tradizione e soprattutto dalla trasformazione di questa innovazione, nel momento in cui una comunità umana la fa sua, in un elemento connaturato da sempre alla tradizione stessa. L’aura da questo punto di vista nasce solo in relazione alla fruizione che ne fa la comunità umana, e quindi dalla sua funzione socio-spaziale, rituale o istituzionale, in quanto strumento del rapporto cognitivo con il divino che le viene riconosciuto. L’opera d’arte da questo momento in poi verrà tramandata come parte di una tradizione.

Da qui ne deriva per Benjamin che nel momento in cui l’opera diviene tecnicamente riproducibile e nel momento in cui questa riproduzione mette in crisi la tradizione l’aura viene meno. Da una parte il gesto artistico unico e irripetibile è riprodotto in serie, dall’altra esso smette di essere una funzione della tradizione, del rituale e del culto.

Benjamin scrive: “Un’antica statua di Venere, per esempio presso i greci, che la rendevano oggetto di culto, stava in un contesto tradizionale completamente diverso da quello in cui la ponevano i monaci medievali, che vedevano in essa un idolo maledetto. Ma ciò che si faceva incontro sia ai primi sia ai secondi era la sua unicità, in altre parole: la sua aura. Il modo originario di articolazione dell’opera d’arte dentro il contesto della tradizione trovava la sua espressione nel culto. Le opere d’arte più antiche sono nate, com’è noto, al servizio di un rituale, dapprima magico, poi religioso. Ora, riveste un significato decisivo il fatto che questo modo di esistenza, avvolto da un’aura particolare, non possa mai staccarsi dalla sua funzione rituale. In altre parole: il valore unico dell’opera d’arte autentica trova una sua fondazione nel rituale, nell’ambito del quale ha avuto il suo primo e originario valore d’uso. Questo fondarsi, per mediato che sia, è riconoscibile, nella forma di un rituale secolarizzato, anche nelle forme più profane del culto della bellezza. […] La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte emancipa per la prima volta nella storia del mondo quest’ultima dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale”.

A nostro avviso queste tesi utilizzano una serie di categorie classiche dell’antropologia e della storia dell’arte che oggi sono divenute inadeguate. Concetti come quelli di tradizione, di sacro e di rituale ad esempio hanno visto nel XX secolo una notevole ridefinizione rispetto all’epoca in cui Benjamin scriveva, e l’intera tesi sulla decadenza dell’aura dell’opera d’arte andrebbe ridiscussa.

Proveremo a tracciare delle linee che anticipino questa possibile ridiscussione.

Innanzi tutto se l’aura derivasse esclusivamente dalla sua funzione rituale il discorso di Benjamin sarebbe impeccabile. Ma se si ponesse come premessa che l’aura non dipenda necessariamente dalla sua funzione rituale, che l’opera d’arte possa aver avuto prima ancora una funzione ludica o ricreativa (il profano precede sempre il sacro e non il contrario), una fruizione non basata su formule circolari e ripetibili, se si mettessero in discussione inoltre le categorie di tradizione e di sacro, le tesi di Benjamin acquisterebbero un nuovo senso e prenderebbero oggi un’altra direzione.

Prendiamo ad esempio la categoria di tradizione. Solitamente per tradizione s’intende un materiale culturale e simbolico che si trasmette nel tempo, essa è di solito concepita come immobile e immutabile nel tempo. Una tradizione dà sempre l’idea di eventi mitici e costumi ereditati e tramandati da un tempo molto remoto, antichissimo. Ma, in realtà, come ha scritto Sahlins la tradizione è una particolare modalità di evoluzione, lungi dall’essere esclusivamente un momento della metastoria (come in Eliade e De Martino), dell’archetipo che eternamente ritorna, essa è in realtà una forma singolare del divenire.

La tradizione attraverso il rituale e il mito, attraverso la ripetizione e la metanarrazione, fissando gli eventi storici in un orizzonte simbolico trasmesso come sempre uguale e trasfigurato, rallenta senz’altro il tempo e favorisce la percezione dell’immutabilità. L’esperienza qualitativa del tempo nella tradizione è apparentemente quella di un’abolizione della storia, ma concretamente la tradizione non è mai fuori dal tempo. Essa è un dispositivo per rallentare la percezione del divenire, anche retroattivamente, produce un lento divenire o un divenire-lento dell’esperienza del tempo. Lo dimostra non soltanto come hanno sostenuto Hubert e Mauss il fenomeno del rinnovamento dei miti, del loro trasformarsi nel tempo in relazione ai mutamenti storici. Tanto che una festa che celebra un santo non più attuale finisce per sostituirlo con uno più recente. Ma anche il fatto, come dimostrato dagli studi degli storici di Past and Present, che la tradizione è stata spesso un’invenzione e neanche lontana nel tempo, ma recente se non recentissima.

Questa concezione della tradizione come lento divenire o divenire-lento del tempo e, in alcuni casi, come vera e propria invenzione, non era estranea nemmeno al discorso di un tradizionalista come Eliade, ma egli ovviamente preferisce sorvolare su quest’aspetto, affermando che ai fini della sua dimostrazione (l’eterno ritorno di sempre le stesse categorie metastoriche in cui vengono fissati nel ricordo collettivo gli accadimenti storici) è del tutto ininfluente. Ai fini del nostro discorso invece è centrale, in quanto se la tradizione è un divenire, se essa può essere considerata un processo collettivo di elaborazione di materiali culturali che oltre alla trasmissione prevede anche l’innovazione e l’invenzione, un processo o un divenire che porta dritti a una concezione del mondo e della vita, ne deriva che l’aura di un’opera d’arte così come analizzata da Benjamin non viene meno.

Essa piuttosto si riconfigura a partire da una ri-funzionalizzazione dell’opera d’arte nel nuovo contesto in cui si viene a trovare. Come nell’esempio di Benjamin l’aura della statua di Venere per il fatto che la sua funzione all’interno del culto politeista viene meno non significa che essa perda l’aura, semplicemente quest’opera viene ri-funzionalizzata all’interno di un nuovo orizzonte sociale, di un nuovo contesto, cambia funzione e conserva l’aura.

L’aura partecipa del divenire della tradizione. I punti di riferimento cognitivi di una società mutano e l’aura non fa che riconfigurarsi in un nuovo sistema relazionale e referenziale. Benjamin afferma che l’unicità dell’opera d’arte ha senso solo in relazione al contesto della tradizione e ammette che la tradizione è qualcosa “di vivente, qualcosa di straordinariamente mutevole”. Eppure non ne trae tutte le conseguenze. La tradizione che è in crisi è la vecchia tradizione, ma essa, essendo una realtà “vivente” era soggetta a straordinari mutamenti, in alcuni casi veniva del tutto reinventata, non stava scomparendo.

L’opera d’arte si ri-funzionalizza in base al nuovo contesto in cui si trova, un contesto nuovo a livello tecnologico, economico, sociale e last but not least culturale, quindi anche tradizionale. Egli scrive: “Così come nelle età primitive, attraverso il peso assoluto del suo valore cultuale, l’opera d’arte era diventata uno strumento di magia, che in certo modo soltanto più tardi venne riconosciuto quale opera d’arte, oggi, attraverso il peso assoluto assunto dal suo valore di esponibilità, l’opera d’arte diventa una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, cioè quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale”.

Anche qui, esattamente come abbiamo dei dubbi fondati sull’effettività dell’arcaica funzione cultuale dell’opera d’arte, la funzione strettamente artistica, estetica, è sempre stata solo una delle funzioni dell’opera e non l’unica che gli si riconosceva, ma bisognerebbe immaginare una fine della storia, una discontinuità radicale nell’evoluzione della specie umana per immaginare che la funzione estetica dell’arte diventi del tutto marginale.

Alcune avanguardie lo hanno teorizzato, una sorta di soppressione dell’opera d’arte in quanto momento separato a favore di una creatività generalizzata e diffusa, ma il superamento dell’opera d’arte in quanto momento separato non implica necessariamente come hanno sostenuto i postmodernisti la fine della storia e non necessariamente la morte dell’arte. Anzi si può sostenere che l’arte è moribonda finché è separata e inizierà davvero ad essere un momento della vita quotidiana quando non sarà più un’attività separata.

Questo superamento veniva identificato dalle avanguardie con la rivoluzione proletaria, da altri con il ritorno ai valori religiosi o tradizionali. In entrambi i casi l’arte doveva superarsi attraverso la “politica”, Benjamin ha scritto: “Nell’istante in cui il criterio dell’autenticità nella produzione dell’arte viene meno, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte. Al posto della sua fondazione nel rituale s’instaura la fondazione su un’altra prassi: vale a dire il suo fondarsi sulla politica”.

Se la funzione politica sembrava a Benjamin sostituirsi a quella cultuale è perché i generali mutamenti della società esigevano risposte politiche, sia l’estetizzazione della politica del futurismo sia la politicizzazione dell’arte dei surrealisti rispondevano a un’esigenza di impegno degli artisti nel processo storico o a una loro strumentalizzazione per fini di propaganda politica. L’essenziale di questo passaggio non è che era venuta meno l’aura, ma che l’apparenza di autonomia dell’arte era crollata.

L’arte per l’arte fu un tentativo disperato di conservare l’autonomia dell’arte, ma erano ormai crollati tutti i muri che la concezione borghese dell’arte precedente aveva eretto a difesa del genio individuale. Il genio individuale si rivelava un mito, un mito che ancora oggi gode di molta fortuna.

Se l’artista secondo la vulgata antropologica all’interno di una tradizione magico-religiosa attingeva direttamente alla fonte dell’ispirazione divina, nella cultura borghese esso prese ad attingere dalle misteriose forze della genialità. Oggi non c’è più niente di misterioso in questa genialità, non di meno si continua a parlare di talento naturale, di un’arte iscritta nel destino biologico di un individuo, si cerca di far sopravvivere il mito dell’artista in quanto individuo eccezionale. Ma è ormai evidente che si tratta di un procedimento strumentale finalizzato alla valorizzazione economica dell’opera d’arte. Procedimento strumentale, ma comunque efficace, in quanto è uno dei dispositivi che garantisce la sopravvivenza dell’aura.

Perdendo la sua autonomia romantica l’arte cominciò a relazionarsi esplicitamente ad un di fuori, e il mezzo e il fine di questa fuoriuscita da se stessa sembrava dover essere principalmente quello della politica. Nel corso del secondo dopoguerra però molti movimenti artistici, intellettuali e politici hanno messo in crisi la concezione della politica come dimensione molare. Dalla filosofia alle ultime avanguardie del dopo-guerra, il politico si rivelava non più solo una questione legata alla presa o alla gestione del potere, al grande scenario degli eventi storici, ma soprattutto alla dimensione molecolare della vita quotidiana.

La relazione dell’arte con un di fuori aveva come fine la dimensione antropologica della vita quotidiana più che la dimensione molare e come suo mezzo proprio la riproducibilità tecnica. L’arte non aveva più bisogno di essere politica nel senso moderno del termine. Essa superava apparentemente le separazioni, penetrava nella vita quotidiana, ma non nel modo che avrebbero desiderato i critici della società mercantile. Il mercato diventava il campo di questa propagazione dell’arte per riproduzione. Nonostante tutto ciò e anzi in conseguenza di tutto ciò essa non perdeva la sua aura.

Per Benjamin i dadaisti realizzavano uno spietato annientamento dell’aura dei loro prodotti attraverso la riproduzione, nondimeno essi sono diventati una tradizione artistica e i loro prodotti oggi hanno un’aura immediatamente riconoscibile. L’orinatorio di Duchamp è diverso da qualsiasi altro orinatoio proprio perché ha un’aura.

Sia chiaro: l’aura non è un prodotto metafisico, ma un prodotto sociale (e spaziale come vedremo). Ciò che cambia nel tempo è la società ed ogni società produce le sue forme d’arte. L’aura è oggi prodotta secondo le condizioni particolari della nostra società, secondo le sue dinamiche dominanti, che sono quelle economiche, e attraverso un’accanita difesa da parte degli esperti e dei mercanti d’arte dell’autenticità dell’opera.

Qui non c’interessa stabilire se l’aura in quanto prodotto delle forze del mercato sia una falsa aura. Questo discorso non ha senso, senza dubbio oggi si cerca di evitare con ogni mezzo l’esito di cui ha scritto Benjamin. Qui c’interessa stabilire che giacché l’aura dell’opera d’arte è un prodotto sociale e giacché oggi il rapporto sociale si determina innanzi tutto come rapporto economico, la relazione dell’opera con un di fuori è una relazione prima di tutto con le leggi di mercato.

L’apparenza di autonomia dell’opera d’arte è venuta meno proprio perché oggi si rivela presa più che nella politica o nel religioso e il tradizionale, nelle dinamiche del mercato. E quando parliamo di mercato non intendiamo solo la modellistica degli economisti, ma anche un tipo di relazione sociale i cui aspetti antropologici e le cui sottigliezze “metafisiche” (il feticismo della merce) non vanno ignorati.

E’ solo a partire da qui, dalla singolare “potenza metafisica” del mercato che si può comprendere la permanenza dell’aura. Persino la copia del quadro celebre con cui la middle class arreda la propria abitazione, partecipa dell’aura dell’originale. Ed è ben chiaro a tutti che vi sia un’originale e una copia dell’originale.

Che l’aura permanga lo si vede in maniera evidente dal fatto che un’opera vale a partire dalla firma del suo autore, il suo brand, che ne garantisce l’autenticità. Quella firma dà un valore all’oggetto artistico e a partire da questo valore, che è allo stesso tempo un valore economico e il simbolo di una tradizione artistica riconosciuta da una cerchia esoterica di esperti, essa avrà un’aura riconosciuta.

[…] Questa è la dinamica con cui oggi la comunità umana occidentale riconosce l’opera d’arte. La riconosce prima di tutto in quanto stima economica, in quanto un particolare tipo di merce nella quale è conveniente immobilizzare capitale. Basta la firma di un autore riconosciuto su qualsiasi cosa per conferirgli un valore allo stesso tempo economico e artistico. Persino nella net.art, nelle forme di arte digitale, in cui non solo vi è la riproducibilità tecnica, ma l’originale e la copia sono esattamente la stessa cosa, vi è un tentativo disperato di salvaguardare con mille astuzie l’autenticità del primo esemplare. E per quanto artisti emergenti facciano della critica all’autenticità dell’opera il proprio obbiettivo artistico, essi avranno successo nella misura in cui verrà riconosciuta alle loro opere sui generis a loro volta un’aura.

Da qui ne emerge chiaramente che l’aura è un prodotto tipicamente sociale e nella nostra società è sì cambiata la funzione dell’arte, ma pur non trattandosi di una funzione cultuale né esclusivamente estetica, essa rimane lo strumento cognitivo con cui la società capitalista si vuole pensare e rappresentare.

Nito Contreras e Centro di Ricerca dei Luoghi Singolari, 2005

 

Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, 1966, Einaudi.

Sahlins M., Storie d’altri, Napoli, 1992, Guida

Appadurai A., Modernità in polvere, Roma, 2001, Meltemi

Hobsbawm E. J. e Ranger T., L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987