Nel settembre 2010 è stato pubblicato il libro "Manuale di Psicogeografia" di Daniele Vazquez, vi troverete tutto quello che c'è da sapere sui luoghi singolari e su Gilles Ivain, autore nel 1953 a soli diciannove anni di un breve saggio decisivo per l'avanzamento della teoria e della pratica socio-spaziali, il "Formulario per un Nuovo Urbanismo". Il libro non perde mai di vista il fondamentale contributo di Gilles Ivain all'invenzione della psicogeografia e della relativa metodologia d'indagine: la deriva. Prima della definizione ufficiale redatta da Guy Debord la psicogeografia si alimentava di un immaginario composito in cui trovavano posto romanzi, fumetti, film pop, la cronaca nera dell'epoca e personaggi storici coetanei dei lettristi, quali Saint-Just ed Evariste Galois. In questa pagina troverete il testo presente nell'aletta e la prefazione, inoltre a questo link potrete accedere a un'estensione del Manuale, il capitolo mancante sulle "piattaforme girevoli psicogeografiche".  

gilles ivain

Dall’aletta

Secondo una definizione corrente, la psicogeografia è una metodologia d’indagine dello spazio urbano, fondata verso la metà del secolo scorso da un gruppo di giovani brillanti e scapestrati tra i quali Guy Debord sarebbe divenuto sicuramente il più noto. Come sempre accade con le definizioni, nella loro rigidità si perde gran parte della vitalità alla base di ogni esperienza genuinamente rivoluzionaria. Il presente manuale si propone di ricostruirne genesi e pratiche a partire dall’estate del 1953, quando, nel mezzo di una Parigi bloccata dagli scioperi dei trasporti pubblici, un giovanissimo Gilles Ivain trasforma i giochi occasionali dell’Internazionale Lettrista in pratica sistematica: la deriva. Fu un cabilo illetterato a proporre il termine psicogeografia per indicare questo sterminato campo d’indagine che cambierà il modo d’intendere la città, l’arte e la politica. Strade, piazze, mercati, parchi, metropolitane, bar, cinema, appartamenti, stanze d’albergo: sono i luoghi adatti alla deriva, un movimento frettoloso che attraversa meravigliose terre incognite a portata di (ogni) città, un gioco dove, come recita un vecchio adagio, non si va mai tanto lontano come quando ci si perde. 

Una prefazione

Errare, nella lingua italiana, è verbo dell’andare e dello sbagliare. Ora, non sappiamo cosa avesse in mente l’intelligenza collettiva per giungere - aggiustando lungo il tempo la parola con la lima dell’uso e dell’invenzione - a un risultato tanto poetico, ma siamo sicuri che Daniele Vazquez sia grande estimatore del potere polisemico appena evocato, e ad esso confidiamo che anche il lettore voglia affidarsi per procedere nelle pagine successive, per scoprirne e apprezzarne la sorprendente complessità.

            Si tratta di pagine concettualmente densissime che, nondimeno, procedono con la leggerezza del racconto: errano seguendo un loro labirintico, affascinante ordine interno fino a comporre un libro di rara fattura intellettuale – e con un titolo non a caso sbagliato, ché di manuale qui c’è soltanto la prensilità del volume. Per tutto il resto, nella sua architettura composita e vitale, nel costituire un insieme unico di voci e vie seguendo le quali risulta tanto piacevole perdersi, lo scritto è un organismo. Meglio, il libro si fa città. L’oggetto di studio per eccellenza, insomma, di quella scienza propriamente erratica che è la psicogeografia.

            Nel lasciare alla perizia dell’autore l’analisi della definizione migliore di tale scienza (si veda, al proposito, il capitolo dedicato alla psicogeografia materialista), degli studi tradizionali sull’argomento manteniamo qui il criterio della cognizione dello spazio urbano attraverso lo strumento metodologico della deriva per rimarcare subito l’innovativa rilevanza, rispetto agli stessi studi, di una delle tesi di fondo dell’opera di Vazquez, la rivendicazione cioè della carica mitopoietica propria della psicogeografia originaria.

            Lontano da ogni rigidità accademica o dottrinaria e, per questo, capace di esplorare senza preconcetti tanto la cultura più popolare che i fondi bibliografici meno noti, Vazquez pare in effetti aver ritrovato una traccia perduta e fondamentale nel dibattito in materia: è una traccia che conduce dritto alla figura leggendaria e per molti versi tragica di Gilles Ivain - viene da chiedersi quando ad essa sarà finalmente dedicata una novella, un fumetto, l’esplosione di un petardo almeno in cima ala torre Eiffel - a partire dalla quale l’autore apposta risoluto sul potenziale fantastico della psicogeografia, la natura di gioco che alimenta i passi delle prime più autentiche derive (nonché, opportunamente camuffata per non incorrere troppo presto nelle scomuniche debordiane di rito, le migliori esperienze artistiche del conseguente situazionismo).

            Gli slanci e spunti del libro sono troppi per tentare una loro compiuta gestione introduttiva: sia tuttavia consentita almeno la più generale segnalazione del talento di Vazquez nell’agganciare al discorso storico sulla psicogeografia alcune questioni centrali del dibattito culturale contemporaneo - valga ad esempio quella degli usi e controlli degli spazi sociali, con buona pace dello stantìo concetto di non-luogo, su cui l’autore depone riflessioni definitive - per fornirne soluzioni originali, senza temere di errare nei terreni minati della polemica e delle passioni dichiarate.

            Un’ultima nota, infine, rispetto alle qualità compositive e letterarie del testo, poiché esse paiono singolarmente conferenti al soggetto. Così come l’ambiente influenza esperienze e caratteri, è ben verosimile che la natura di una città condizioni la scrittura compiutasi al suo interno. Rappresenta tale condizione, con la trasparenza propria della migliore poesia, un componimento di Fernández Moreno dedicato a Buenos Aires, Compenetrazione: “Se mi si domanda / perché il mio verso / è così preciso, così regolare, / vorrei rispondere a tutti / che ho imparato a comporlo / sulla geometria delle nostre strade”. Quanto all’opera di Vazquez, certo è che se la testa dell’autore stava a Parigi, vagante tra il Continente Contrescarpe e bar malfamati di periferia (talvolta imboccando il passaggio fantastico di Schwambrania), i piedi consumavano concreti il selciato di Roma misurando le notti dietro Campo de’ Fiori o lungo Via del Pellegrino. Di questa città transitoriamente eterna il Manuale di Daniele ha assunto una tipica, disordinata meraviglia: confidiamo che, con la proporzione che il disincanto della stessa città insegna, ne trattenga anche una pur minima capacità di durata.

 

Luca Arnaudo