Questo articolo è stato pubblicato nel marzo 2009 sul numero LXIV di NIM magazine, rivista che non è più on line, alcune sue parti sono state poi riarticolate per l'ultimo capitolo del "Manuale di Psicogeografia". Molte cose però sono state tralasciate e andate perse, come la valutazione del fondamentale contributo di de Certeau e Augoyard, in un discorso che muove dalle pratiche urbane, a un'"antropologia della comunicazione non visuale". 

declino del nonluogo

IL RITORNO DEI LUOGHI ANTROPOLOGICI

È ormai da alcuni anni che sociologi e antropologi urbani, urbanisti e architetti, filosofi e critici d’arte hanno smesso di usare la parola “nonluogo”. Il concetto è venuto a noia e si guardano con un certo disprezzo quegli intellettuali che si attardano ancora ad usarlo.  Questa parola si è, effettivamente, banalizzata. L’uso che se ne fa è un evidente travisamento, una parola che corrisponde ormai solo vagamente alla concettualizzazione che produsse Augé più di tre lustri fa. Nondimeno è entrata nell’uso comune, è sulla bocca anche di persone che non hanno mai messo piede in un’aula universitaria ed è del tutto naturale che sia così. L’uso produce uno scarto dal senso proprio definito dall’accademia. Come una band che all’apice del suo successo si scioglie, così mai come oggi che il nonluogo è entrato nel vocabolario quotidiano se ne decreta il tramonto. Eppure questo tramonto non sembra dovuto al fatto che chi conduce studi sui mutamenti dello spazio contemporaneo vi trovi un’inadeguatezza a spiegare ciò cui si riferiva, il motivo sembra più che altro una certa nausea snob per tutto ciò che si corrompe a contatto con il volgo. Ci si appropria dei luoghi così come s’impongono anche nominandoli, e quando un luogo è innominabile la parola “nonluogo” si presta bene. E’ andata così e gli intellettuali accademici non possono farci proprio nulla. Per quanto mi riguarda è un concetto per cui ho provato ostilità fin dall’inizio. Per due ordini di motivi. Uno, perché la stessa accademia per superficialità l’ha sempre frainteso finendo per accettarne le insopportabili conseguenze. Questo concetto ha infatti spostato per  molto tempo l’attenzione degli antropologi, dei sociologi e degli urbanisti verso la concezione dello spazio che rappresentava il gusto e lo stile di vita delle élite globali. Ha distolto dalle pratiche dello spazio effettive, quelle che provengono “dal basso”, quelle degli abitanti e soprattutto quelle di chi prefigura con la propria flessibilità e disposizione al movimento un’altra concezione dello spazio: i migranti e i precari. L’esperienza di migranti e precari è, a mio avviso, l’altro lato della produzione dello spazio contemporaneo, in opposizione evidente al nomadismo delle elité globali e all’organizzazione dello spazio cui questo allude.  L’altro motivo è che si è creata una polarizzazione che vede opporre ai “nonluoghi” i “luoghi antropologici” e questa è stata una vera e propria sciagura per il pensiero contemporaneo. A chi voleva contrapporsi alla razionalità del mercato non rimaneva che difendersi i luoghi antropologici, porsi su un terreno conservatore. Dov’è finita quell’attitudine che ha sempre tentato di accelerare l’avanzare della modernità per portarla ancora più avanti, fino al punto in cui avrebbe dovuto rovesciarsi? Quell’attitudine è ormai rara. Il capitalismo è modernizzatore per sua natura, ma ora, oltre alla chiesa e agli identitari ha un nuovo soggetto che cerca di frenarlo per frenare il suo possibile rovesciamento: il progressista. La mentalità del progressista è divenuta così radicata ai luoghi antropologici e ai territori che ha finito per inseguire chi su questo terreno, l’identità tra comunità e ordinamenti spaziali, da sempre ha fondato la sua causa. Così Aldo Bonomi ha potuto scrivere di un passaggio dalla coscienza di classe alla coscienza di luogo. Ritengo sia una sciagura perché su questo terreno il progressista non può che farsi dettare l’agenda da altri, sulla sicurezza, sull’immigrazione così come su tutte le questioni riterritorializzanti e lavorare ad una impressionante regressione. Vorrei scendere nel merito di questi due ordini di questioni, poiché potrebbero offrire spunti di riflessione e approfondimento.

Come ho detto, l’attenzione ai nonluoghi ha spostato l’interesse verso lo “spazio geometrico” così come viene imposto all’abitante e al migrante (o semplicemente al passante) e ha finito per far ignorare le forme spontanee di appropriazione quotidiana dello spazio. E non è un caso. Lo spostamento dello sguardo vi era già nella concettualizzazione elaborata da Augé, nel rovesciamento di senso  che ha operato a partire dal concetto di nonluogo così come si ritrovava in de Certeau. Augé sostiene che de Certeau non contrapponeva  i “luoghi” agli “spazi” o i “luoghi” ai “nonluoghi”. Non si trattava, è vero, di una contrapposizione, così come non avrebbe dovuto esserlo quella tra “nonluogo” e “luogo antropologico” in Augé. Come ci dice lo stesso Augé “sono piuttosto delle polarità sfuggenti: il primo non è mai completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente”.  Anche in de Certeau si potrebbe dire che sono polarità sfuggenti, solo che rovesciate, richiamando in maniera più stringente al rapporto tra lingua e parola: “Lo spazio sarebbe rispetto al luogo ciò che diventa la parola quando è parlata, ovvero quando è colta nell’ambiguità dell’esecuzione. A differenza del luogo non ha dunque l’univocità né la stabilità di qualcosa di circoscritto”. E ancora: ”Lo spazio è un luogo praticato. Così la strada geograficamente definita da un’urbanistica è trasformata in spazio dai camminatori. La lettura è lo spazio prodotto attraverso la pratica del luogo che costituisce un sistema di segni”.

Insomma, il “luogo” è per de Certeau ciò che per Augé è il “nonluogo” e lo “spazio” o “nonluogo” è ciò che per Augé è il “luogo antropologico”. De Certeau ha usato il concetto di nonluogo prima di Augé per questo l’antropologo della surmodernità considera quel senso originario un “preliminare obbligato”. Ma quel senso è per Augè insopportabile e gli sfugge in continuazione. Nell’analizzare i testi “Camminare per la città” e “Lo spazio come racconto” contenuti ne “L’invenzione del quotidiano” si trova spesso a disagio, tanto da dover fare delle precisazioni, delle inversioni di senso: ”A questo punto si impongono alcune precisazioni terminologiche…”, oppure: “Inversamente, potremmo dire…”. A un antropologo il fatto che il “luogo” rappresenti la ragione spaziale geometrica imposta e invece lo “spazio” o “nonluogo” la pratica quotidiana non poteva piacere.  E quindi Augé scrive: “Il luogo qui definito non è assolutamente il luogo che de Certeau oppone allo spazio come la figura geometrica al movimento, la parola taciuta alla parola parlata o la stasi al percorso: è il luogo del senso iscritto e simboleggiato, il luogo antropologico”. E ancora: ”…la nozione di spazio, così come è utilizzata oggi… sembra poter essere utilmente applicata, anche a causa di una assenza di caratterizzazione, alle superfici non simbolizzate del pianeta”.

Ma non si è trattato solo di un rovesciamento per cui il senso di una parola è attribuita alla polarità opposta e viceversa, ad esempio: ”Certi luoghi non esistono che attraverso le parole che li evocano; in questo senso nonluoghi o piuttosto luoghi immaginari, utopie banali, stereotipi. Essi sono il contrario del nonluogo secondo Michel de Certeau”. Vi è anche un fraintendimento di fondo dell’uso del concetto in de Certeau: “Quando Michel de Certeau parla di ‘nonluogo’ è per alludere ad una sorta di qualità negativa del luogo, di un’assenza del luogo a se stesso impostagli dal nome che gli viene dato. Egli ci dice che i nomi propri impongono al luogo  «una ingiunzione venuta dall’altro (una storia…)». Ed è vero che colui che tracciando un itinerario ne pronuncia i nomi non ne conosce necessariamente un gran che. Ma i nomi da soli bastano a produrre nel luogo «questa erosione o nonluogo che vi scava la legge dell’altro»? Ogni itinerario, precisa Michel de Certeau,  è in qualche  modo “deviato” dai nomi  che gli danno «sensi (o direzioni) fino a quel momento imprevedibili». E aggiunge: «Questi nomi creano il nonluogo nei luoghi; li mutano in passaggi»”.

Il nonluogo in de Certeau non è affatto una qualità negativa del luogo, una sua assenza. Tantomeno in questi passaggi che Augé cita. Non vi è una dialettica, il nonluogo è piuttosto una tattica che si dispiega nel luogo. E’ vero: i “nomi creano un nonluogo nei luoghi; li tramutano in passaggi”. Ma che cosa vuol dire? De Certeau scrive, nella traduzione di Mario Baccianini: “Danno impulso a movimenti, alla maniera di richiami e appelli che indirizzano o sviano l’itinerario conferendogli significati ( o direzioni) fino ad allora imprevedibili”. Ma questo implica una qualità negativa? Seguiamo il ragionamento: “…queste parole… perdono poco a poco il loro valore inciso, come delle monete usate, ma la loro capacità di significare sopravvive a questa determinazione primaria. …si offrono alle polisemie assegnate loro dai passanti; si distaccano dai luoghi che dovevano definire e fungono da appuntamenti immaginari per dei viaggi che, tramutati in metafore, determinano per ragioni estranee al loro valore originario, ma sapute/insapute dai passanti”. E ancora: “Strana toponimia scollata, dai luoghi, che plana sopra la città come una geografia nebulosa di “senso” in attesa e ispira le deambulazioni fisiche. …Bisognerebbe moltiplicare le comparazioni per render conto dei poteri magici di cui i nomi propri dispongono ispirando i passi di chi cammina”.  E poi finalmente chiaro: “…queste parole operano anche uno svuotamento e un’usura rispetto alla loro destinazione primaria. Divengono spazi liberati, occupabili”. E’ evidente che Augé non ha capito nulla del discorso di de Certeau che si propone: “di sceverare le pratiche esatranee allo spazio “geometrico” o “geografico” delle costruzioni visive, panottiche o teoriche. Pratiche delo spazio che rinviano a ‘un’altra spazialità’ (un’esperienza antropologica, poetica e mitica dello spazio) e a una dipendenza opaca e cieca della città abitata”. Il nonluogo allude piuttosto alle pratiche di appropriazione tattica possibili nei luoghi:  “Una città transumante, o metaforica, s’insinua così nel testo chiaro di quella pianificata e leggibile”.

Ma vediamo, ad esempio, cosa vuol dire che  “i nomi propri… creano nel luogo un’erosione, un nonluogo che vi scava la legge dell’altro”. I nomi propri rendono abitabile e credibile un luogo, impongono, è vero un’ingiunzione che viene dall’altro, ma allo stesso tempo alterano l’identità funzionalista distaccandosene. De Certeau chiama “autorità locale” “il dicorso che fa credere”, “che priva di ciò che ingiunge”, “che non dà mai ciò che promette”, lungi dall’esprimere un vuoto, nel descrivere una mancanza, la crea, “ fa posto al vuoto”, “ apre spiragli”, ed infine “ permette un gioco in un sistema di luoghi definiti”. E’ ciò che rende abitabile. E’ una falla in un sistema irrespirabile che satura di significazione i luoghi. E dunque il totalitarismo funzionalista è ostile all’autorità locale. Questi nomi propri sono “autorità locali”, ma in che senso? Le autorità locali sono superstizioni, dicerie, leggende, racconti, cioè l’immaginario degli abitanti o dei passanti, sono il “potere abitante” secondo una definizione di Augoyard. De Certeau dice chiaramente che tutto ciò è un paradosso apparente, ma Augé non sembra averlo proprio tollerato.

Per scioglierlo era necessario approfondire lo studio e capire da dove de Certeau aveva attinto queste idee. Ci si sarebbe, così, imbattuti nel testo di Jean-François Augoyard “Passo Passo. Il percorso quotidiano in ambiente urbano”. Molte delle idee che si ritrovano in questa parte del libro di de Certeau sono di Augoyard e basta leggere il libro appena citato per rendersene conto. Augoyard aveva usato il concetto di “nonluogo” prima di de Certeau, ma per esaminarlo è necessario fare un breve chiarimento introduttivo. In entrambi gli autori vi è una grande diffidenza verso l’esperienza visuale dello spazio. I loro scritti sono senz’altro un contributo essenziale per un’antropologia della comunicazione non visuale. Ad esempio, per rimanere ancora su de Certeau: “Coloro che vivono quotidianamente la città, a partire da soglie in cui cessa la visibilità, stanno in ‘basso’. Forma elementare di questa esperienza sono i passanti”. Di seguito: “ …si aggirano in spazi che non si vedono, ma di cui hanno una conoscenza altrettanto cieca dei contatti fisici amorosi… È come se un accecamento caratterizzasse le pratiche organizzatrici della città abitata”. E in questi passi c’è una nota in cui si fa riferimento a Cartesio: nelle sue “Regualae” faceva del cieco il garante della conoscenza delle cose e dei luoghi contro le illusioni e gli inganni della vista. Ancora: “Vi è un’estraneità del quotidiano, sfuggente alle totalizzazioni immaginarie dell’occhio, che è priva di superficie o è soltanto un limite avanzato, un bordo che si staglia sul visibile”. Per de Certeau il vedere è la conoscenza dell’ordine dei luoghi e l’andare è la conoscenza delle azioni spazializzanti. Essi si oppongono come la mappa al percorso o all’itinerario. Tra un “fare” e un “vedere” nel linguaggio comune il primo domina manifestamente, perché il vedere è proprio del discorso scientifico. Ed è “da questo insieme” che mette in secondo piano il panorama visuale che de Certeau cercherà di sceverare le pratiche estranee allo spazio “geometrico” o “geografico”. Detto questo sarà più facile considerare cosa sia un nonluogo per Augoyard,  per il quale questa componente di smaterializzazione dello spazio visuale è ancora più rilevante, considerata senza ambiguità priva di alcuna valenza negativa.

In Augoyard il “nonluogo” è una delle forme di appropriazione da parte degli abitanti dello “spazio geometrico”. E’ un’istanza di natura immaginaria che si manifesta soprattutto “nelle voci che circondano questo e quel luogo il più delle volte inquietante”. Questi luoghi sono connotati da una certa dose di fascino anche se si vuol tener conto dei “si dice”. E’ “un’appropriazione nella quale le differenze sociali si confondono facilmente e che, passando, per i meandri dell’immaginario, smaterializza la semplice dimensione spaziale del luogo”. Certi spazi, vissuti secondo modalità permeate d’immaginario, tendono a perdere la loro natura di “luogo” inserito in un contesto spazio-geometrico organizzato. Vi è un effetto di smaterializzazione delle rappresentazioni e dei ricordi dello spazio visuale. Il nonluogo in Augoyard è il regno dell’udito, del paesaggio sonoro, delle dicerie collettive e delle voci inquietanti, che ricoprono e distruggono il panorama visuale ordinario. Non si vedono più l’ascensore, il bar, il mezzanino laddove sono situati, le istanze dell’immaginario metamorfizzano il luogo. Si tratta dunque di una tattica, di una forma del “potere abitante” che produce un’atopia. Si nega il contesto spaziale “reale” la cui totalità sfugge all’abitante, uno spazio che viene vissuto come frammentato, per appropriarsene globalmente, ad occhi chiusi, ad un livello immaginario. Non è un caso che Augoyard da anni si occupi di paesaggi sonori.

Questo approccio dei due filosofi a un antropologo non poteva che sembrare senza senso, così rovesciando divenne: il luogo è uno spazio praticato e di conseguenza un nonluogo uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico. Questo rovesciamento ha forse reso più chiaro e più semplice il discorso sui luoghi , ma a quale prezzo! L’effetto è stato di distogliere l’attenzione dalle pratiche dello spazio provenienti dalla viscere della città, dall’uso comune che se ne fa quotidianamente.

Quanto all’altra questione la porrei in questo modo: una volta che il nonluogo è divenuto una categoria accettata, un dato di fatto nella vita quotidiana di ciascuno, vi è stato un generale ritorno da parte degli intellettuali accademici, in particolar modo di sociologi e urbanisti, ai luoghi antropologici. D’altra parte come ha affermato Bonomi vi è stato un passaggio dalla coscienza di classe alla coscienza di luogo. Bonomi non si sbaglia. L’analisi che ho appena proposto dovrebbe essere uno spunto per far saltare quelle “polarità sfuggenti” che sono diventate col tempo un‘ennesima dicotomia irrigidita del pensiero contemporaneo: “nonluogo” versus “luogo antropologico”. Ritengo che far saltare questa dicotomia sia utile per evitare che nel contestare i nonluoghi come razionalità spaziale del mercato vi sia un ritorno incondizionato ai “luoghi antropologici”. Con questo ritorno l’attitudine verso il mondo di chi considera fondamentale il conflitto e i mutamenti si trasformerebbe in un “idiotismo”, in una difesa dell’esistente, del mondo così com’è. Un appiattimento sulle spinte centripete, riterritorializzanti. Per questa via le spinte deterritorializzanti e centrifughe della modernità sono lasciate in Occidente quasi esclusivamente al movimento del capitale cui si oppongono solo le migrazioni di massa da una parte e l’esperienza del precariato dall’altra. Sarebbe ovviamente sciocco credere che un concetto come quello di nonluogo possa essere una delle cause di tutto ciò, piuttosto esso va interpretato come una delle conseguenze sul pensiero contemporaneo di circostanze socio-spaziali più generali. Cos’è dunque successo per arrivare al punto per cui si fanno rivolte di strada per chiedere un posto fisso e una casetta di proprietà, per arrivare al punto in cui si difende il proprio territorio, la propria piccola proprietà da ogni intrusione deterritorializzante, sia quella del capitale sia quella prodotta dalle migrazioni? Cosa è successo per arrivare la punto in cui l’unica risposta che si dà a un precario è di farsi raccomandare per avere un posto fisso lasciandolo altrimenti del tutto sprovvisto di garanzie sociali? Credo che la soluzione sia ancora in un vecchio testo, “La questione delle abitazioni” di Engels, tre articoli pubblicati nel Volksstaat, scritti tra il 1872 e il 1873. Si tratta di testi che alla luce di oggi appaiono ancor più illumimanti. Engels ripondeva all’articolo del signor Mülberger. Costui, un proudhonista, si scandalizzava del fatto che più del 90% della popolazione delle grandi città non possedesse una residenza di proprietà. Considerava il centro stesso dell’esistenza familiare e morale, la casa e il focolare, travolti dal vortice sociale, cosa che rendeva la popolazione al di sotto della condizione dei selvaggi,  giacché infatti “il troglodita ha la sua caverna, l’indigeno dell’Australia ha la sua capanna di fango e l’indiano possiede un focolare, ma il moderno proletario resta effettivamente sospeso in aria”. Mülberger proponeva, in forza della giustizia eterna, di trasformare il fitto che si pagava in un pagamento a rate del prezzo dell’abitazione. Certamente, in un mondo che da allora nonostante lo sviluppo portentoso delle forze produttive e nonostante i media si siano evoluti enormemente - senza che i messaggi siano mai cambiati - , in un mondo che nonostante ciò non ha mai superato i problemi strutturali che già si vedevano allora, quest’idea ha avuto col senno di poi più successo di quella di Marx ed Engels.

Cosa sosteneva Engels contro questa posizione che oggi appare così ragionevole? Sosteneva che la privazione della casa e del focolare cui furono costretti i contadini per trasferirsi nelle grandi città era stata la principale delle condizioni della loro emancipazione spirituale. Che il proletario inglese del 1872 stava infinitamente più in alto del tessitore rurale del 1772 con la sua casa e il suo focolare, del “troglodita con la sua caverna”, “dell’Australiano con la sua capanna di fango” e “dell’indiano con il suo proprio focolare”.  Tutti questi, affermava, non avrebbero potuto mai realizzare qualcosa come la Comune di Parigi. Engels sostiene che il motivo dell’emancipazione spirituale del proletariato stava nel fatto che si era liberato da tutti i vincoli, anche di quelli che lo fissavano al suolo. Per Engels: “Tutta la concezione, secondo cui il lavoratore debba comprarsi l’abitazione, riposa, a sua volta, sull’idea base reazionaria di Proudhon …che le condizioni create dalla moderna grande industria sono delle escrescenze patologiche e che la società deve essere riportata con la forza …ad una situazione in cui il lavoro manuale individuale, stabile, dei vecchi tempi sia la regola … Una volta che i lavoratori siano riportati a questa situazione stabile, una volta che il “vortice sociale” sia eliminato con successo, allora naturalmente il lavoratore può nuovamente usufruire della proprietà della “casa e del focolare” …Questo farebbe di nuovo degli odierni lavaoratori  gli stessi schiavi limitati, striscianti, bacchettoni che erano i loro antenati”. E scrive ancora: “Gli esponenti più accorti delle classi dominanti hanno sempre indirizzato i loro sforzi ad accrescere il numero dei piccoli proprietari, allo scopo di allevarsi un esercito contro il proletariato”. Il superamento di questo problema per Engels, è noto, sarebbe avvenuto esclusivamente con l’eliminazione dell’antitesi tra città e campagna. Insomma, date una casa di proprietà ai proletari, inchiodateli a un luogo e vi garantirete l’ordine sociale. Nessuno legge più questi autori, me ne rendo conto, ma piuttosto che arrampicarsi sugli specchi con sottili analisi sul perché di questa ondata di riterritorialiazzazione, di ritorno ai luoghi aintropologici, non è più semplice dire che dietro alla coscienza di luogo non vi è altro che la difesa della propria piccola proprietà in un paese in cui la stragrande maggioranza è composta da individui proprietari? Machiavelli diceva che il re teme sempre di perdere il suo regno, figurarsi allora se il piccolo proprietario non teme di perdere la propria piccola proprietà o di non potersela godere. Questa non è una spiegazione più semplice ai fenomeni territoriali di intolleranza verso i migranti e i devianti e allo stesso tempo alla resistenza verso qualsiasi forma di modernizzazione che intervenga a modificare i luoghi antropologici? Perché non si vuole risolvere la questione del precariato se non inchiodando i lavoratori flessibili a un posto fisso e a un luogo per tutta la vita? Il nomadismo è divenuto un privilegio delle élite globali, per gli altri stanzialità, migrazioni disperate o precariato. Il progressista ormai lavora tanto quanto il suo nemico al fallimento della modernità. Ciò che Augé chiamava “paramoderno”.  A chi conviene?