Dopo i sopralluoghi in spazi occupati e alcune soluzioni didattiche performative come la simulazione d'acquisto di una abitazione dalla quale gli inquilini erano stati sfrattati per toccare con mano le dinamiche speculative, dopo la raccolta di materiali nelle isole ecologiche dell'AMA e lo step teorico, inizia la fase di ideazione, progettazione e costruzione, non prima di essere passati attraverso gli esercizi di percezione della relazione tra corpo e spazio a cura del CRIQ. Qui troverete una relazione esaustiva di tutti i passaggi del workshop e nella gallery la documentazione fotografica. 

il cantiere

Il workshop: “Le forme emergenti dell’abitare”

Laura Martini - Centro di Ricerca dei Luoghi Singolari  

Progettazione partecipante

In questo workshop è stata sperimentata una forma di “progettazione partecipante”. Abbiamo deciso di chiamarla “partecipante” e non “partecipata” per diversi motivi. Il primo è che la fase di progettazione vera e propria è stata preceduta da una fase di ricerca sul campo di tipo antropologico, da una forma di “osservazione partecipante“. Sono stati realizzati dei sopralluoghi nel quartiere Monti e in case occupate con la finalità di avvicinare concretamente gli studenti alle diverse problematiche dell’abitare, dagli sfratti alle occupazioni, per metterli nella condizione di porsi domande sul significato di spazio sociale e sul suo attuale mutamento. Si è trattato di parlare con gli abitanti, di visitare le loro case, di entrare nel loro spazio, di capire i loro problemi, anche con qualche soluzione performativa come nel caso della simulazione d’acquisto di una casa per comprendere quali fossero le modalità con cui si speculava sulle case degli sfrattati. Gli studenti non sono stati osservatori distaccati, ma emotivamente partecipanti così come suggerisce la metodologia della ricerca etnografica. Lo scopo era che comprendessero l’abitare dall’interno, come un problema che li riguardasse da vicino non solo come futuri progettisti ma anche come abitanti. E che questo loro essere direttamente coinvolti nelle questioni dell’abitare, a maggior ragione loro che in quanto studenti vivono una condizione di transizione e precarietà economica e abitativa, una zona liminare che probabilmente si protrarrà anche dopo la laurea, li portasse ad immaginare una progettazione vicina ai loro desideri.

Il secondo è che la fase di progettazione è stata anch’essa “partecipante”. Poiché l‘aula B2 in cui si sarebbe svolta la progettazione era al centro di un conflitto tra gli studenti e l‘università. Gli studenti rivendicavano una maggiore partecipazione alle scelte di ri-funzionalizzazione degli spazi universitari,  all’inizio si era proposto che realizzassero uno spazio così come loro lo desideravano e immaginavano nel caso fossero stati coinvolti nella progettazione e ristrutturazione della B2. Uno spazio che sarebbe stato poi inaugurato con una festa e uno spettacolo artistico, e che in parte andava pensato fin da subito anche in vista di questo evento. Si trattava anche di favorire la produzione di un luogo antropologico (la festa, l’evento artistico), a partire da un contesto di lavoro e di relazione che era esso stesso un luogo antropologico. Nel farsi del seminario agli studenti, divisi in gruppi di progettazione, sono stati lasciati ampi spazi di immaginazione, ideazione e autorganizzazione. La cooperazione all‘interno dei gruppi e tra i gruppi  ha fatto prendere alla progettazione un percorso diverso. Essa è diventata una progettazione partecipante vera e propria e non la simulazione di una progettazione partecipata. Gli studenti hanno costruito mettendo in gioco una creatività straordinaria e grande impegno, avendo a disposizione non molti materiali, che erano inoltre materiali di riciclo da loro selezionati nelle isole ecologiche dell’AMA, delle “stanze”, dei luoghi singolari che nella loro coesistenza prefiguravano una casa che andava ben oltre la rivendicazione locale, una casa che liberava lo sguardo su uno scenario possibile e concreto: un’abitazione progettata da loro e per loro. Più che alle funzioni di questo spazio, abbiamo chiesto agli studenti di partire dai suoi possibili usi, dall’uso che avrebbero voluto farne, di immaginare forme di  uso non previste per uno spazio universitario, così sono spuntate fuori stanze per fare rumore, per osservare ed essere osservati, per esprimersi artisticamente, per riposare, giocare e sognare ad occhi aperti, stanze pensate per sentire il proprio corpo, stanze per incontrarsi, spazi selvaggi o spazi tranquilli, stanze per studiare comodamente e dove la cultura è accessibile per tutti. Dalla ricerca sul campo si è passati dunque alle prefigurazioni degli usi possibili. dello spazio che avrebbero voluto progettare. Questo passaggio non è stato immediato, gli studenti nonostante fossero smaliziati rispetto alla progettazione in quanto iscritti al quarto anno,  hanno avuto una certa difficoltà a capire cosa dovessero progettare, poiché in primo luogo si sono dovuti separare dagli schemi didattici forniti dall’università: in questo seminario non esisteva un tema definito da una tipologia, da un uso o da un mero esercizio di composizione, non esisteva un materiale o una tecnologia da approfondire, né manuali da consultare, tantomeno starlet dell’architettura cui far riferimento. Il punto di partenza  sono stati i desideri stessi di ogni soggetto partecipante al workshop (compresi i docenti e gli artisti). Il mettere  in gioco una parte profonda di sé, senza punti di riferimento esterni, ha imposto un livello alto di introspezione, di ascolto e partecipazione, ed è stato questo il momento più duro per gli studenti. In questa fase sono stati di enorme aiuto le “tecniche performative del corpo” del CRIQ. Gli esercizi performativi da loro guidati hanno reso possibile un’appropriazione dello spazio B2 attraverso la mobilitazione dei corpi e hanno favorito lo svilupparsi dell’empatia e della fiducia tra i presenti. Successivamente è stato davvero prezioso il contributo della ricercatrice Viviana Petrucci la quale, applicando agli studenti una pratica tipica della progettazione partecipata con i bambini, ha suggerito di esprimere i propri desideri riguardo all’abitare scrivendoli a terra con un gessetto, da questa forma di scrittura creativa e collettiva sono venuti fuori infine i nove temi del seminario. In base alle loro affinità gli studenti si sono organizzati poi in gruppi. Il risultato finale di questa fase è che ne sono usciti pattern dell‘abitare ancora poco esplorati e a partire da qui è stato facile passare alla progettazione. Questo è tutto ciò che intendiamo con “progettazione partecipante”. 

Dal caos a un ordine onirico

 Il giorno in cui per la prima volta siamo entrati nell’aula B2 ci si è presentata come un enorme, gelido contenitore, la configurazione dell’aula con i suoi binari sospesi, le campate scandite dalle colonnine in ghisa suggerivano notevoli spunti alla progettazione, ma nonostante la B2 sia un notevole esempio di archeologia industriale l’atteggiamento degli studenti è stato per dirlo con le parole di Koolhaas “Fuck the context”. Nonostante gli innumerevoli richiami al contesto da parte nostra gli studenti hanno preferito appropriarsi dello spazio facendo tabula rasa, estraniandosi dal contesto, distruggendolo per ricostruirlo. Il vuoto della B2 si è presto trasformato in un caos sporco e rumoroso. L’architettura che si andava delineando non aveva nulla di affascinante: la B2 stava lentamente assumendo le sembianze di una baraccopoli periurbana. Ogni studente infatti aveva sottratto al deposito dell’AMA una quantità innumerevole di oggetti ai quali sembrava essere legato morbosamente, la sensazione che ci è rimasta è quella di un enorme trasloco dove ogni soggetto ha cercato un pezzo di sé tra i rifiuti e lo ha fatto con tanta passione da non potersene più separare, da non poter più rinunciare anche a uno solo degli oggetti selezionati. La composizione di questi oggetti formava un enorme baraccopoli. Per nulla spaventati abbiamo cercato di aiutare il processo creativo procedendo per sottrazione, costringendo gli studenti a comportarsi come quando uno mette in ordine la propria casa e decide di lasciare indietro alcune cose e di conservare solo le indispensabili,  è così che siamo arrivati al sabato mattina. Quella che ancora il giorno prima sembrava una baraccopoli si era trasformata improvvisamente in un allestimento davvero sorprendente. All’interno della B2 si era passati attraverso un flusso negentropico dal caos a un ordine onirico dove dieci istallazioni erano legate tra loro da un continuo rimando di significati, aperture, cesure volute e scorci cercati o da cercare, concretezza ed effimero insieme, espressione di un concetto e manifestazione di desideri. A suo modo lo spazio configurato dalle dieci installazioni aveva trovato una sua organizzazione unitaria, questo risultato è stato raggiunto attraverso le riunioni intergruppo e in parte grazie all’intervento del network fiorentino di studi di architettura 8×8, la cui esperienza “la scala dell’abitare” rappresentava un esempio riuscito per molti aspetti simile al nostro workshop cui ispirarsi. Quest’ordine onirico, questa grande eterogeneità di materiali e concezioni che trovava il suo momento unitario nel sogno, sarà tutto consumato selvaggiamente nel corso di una festa e restituito così senza ritorno al caos primigenio. L’aula abbiamo detto era al centro di un conflitto, noi riteniamo che con questo seminario si è in qualche modo spostato il conflitto, si è passati dalla rivendicazione locale alla prefigurazione di uno scenario abitativo d’avanguardia che ha rappresentato per molti aspetti una critica dell’architettura contemporanea. Gli studenti hanno attraversato tutti gli step della progettazione partecipante: l’osservazione, l’ascolto, l’espressione, la selezione dei materiali, l’autorganizzazione, l’ideazione, la progettazione, sono stati architetti ma hanno dovuto anche affrontare il lavoro manuale richiesto da una rappresentazione in scala 1:1. Hanno dimostrato non solo di essere creativi e pieni di idee, ma anche in grado di progettare uno spazio universitario.

Le stanze e gli eventi

La soglia. Il gruppo delle “sogliole” ha sviluppato un concetto di soglia molto interessante, dalla soglia come linea alla soglia come zona. Involontariamente o forse no, hanno risolto a loro modo una delle questioni filosofiche riguardanti lo spazio. La loro soglia non era semplicemente limes, una linea  che producesse una dura discontinuità tra esterno e interno, ma potendosi espandere si configurava anche come limen, una zona che favorisse non solo il transito ma anche l’incontro. Benjamin ha scritto che la soglia non è una linea, ma una zona, cosa che sembra dimostrata anche dalle ricerche antropologiche, si pensi ai riti di passaggio di Van Gennep, in cui la soglia è un luogo in ci si disaggrega dallo spazio pubblico, se ne viene allontanati per partecipare a un rito di passaggio che va considerato anche dal punto di vista spaziale, per poi ritornare cambiati (un altro status) allo spazio pubblico cui si viene riaggregati. Così la soglia ha svolto questo ruolo, disaggregando dalla routine quotidiana e introducendo alla zona dell’evento OSI, per poi riaggregarti alla città, all’uscita, permettendo di metabolizzare un’esperienza artistica spiazzante.  E le “sogliole“ non si sono fermate qui, per chi si fosse trovato ad attraversare la loro soglia avrebbe vissuto anche una spaesante inversione dei termini, così uno spazio dell’esterno si trovava all’interno (strisce pedonali, lampioni, alberi e la presenza di un furgoncino) e uno spazio dell’interno si trovava all’esterno (nel cortile un salotto). Nello spazio della soglia, all‘interno del furgoncino, c‘era poi un teatro. Le compagnie Semivolanti e Valdoca rappresentavano quattro spettacoli teatrali all‘interno di un fiat novecento, ogni cinque minuti gli spettatori tre a tre potevano assistere a uno di questi spettacoli. Per ogni spettacolo la scenografia all‘interno del furgoncino cambiava, tirando giù sedili, aprendo e chiudendo una tendina, una volta gli spettatori erano nel retro, una volta nei sedili anteriori, una volta lo spettacolo era a scena aperta, altre volte vi era un sipario. Siamo con questo spettacolo ai limiti dell‘esperienza poetica del libro di Peter Handke: “un mondo dell‘interno dell‘esterno dell‘interno“. La soglia introduceva all’intero spazio, pur essendo un luogo in cui intrattenersi piacevolmente.

Stanza del rumore. L’effetto di inversione dei termini esterno/interno era amplificato dalla “stanza del rumore” che era il primo spazio che ci si trovava di fronte. Questo spazio riproduceva all’interno il paesaggio sonoro della metropoli fatto di suoni postindustriali, e che durante l’evento farà danzare un performer (Franco di Majo) vestito di una pesante armatura cyborg. La stanza del rumore è stata progettata con materiali freddi, le pareti erano quasi immateriali, le sue mura erano mura del suono, questa stanza ha fornito il soundscape di tutta l‘aula,.

Monokoros. Con gradazioni diverse notiamo che il confine rigido tra interno ed esterno è venuto a mancare in tutte le installazioni. La seconda stanza che ci si trovava di fronte dopo quella del rumore era “monospazio”, una tenda mutante a configurazioni multiple, adatta per uno stile di vita nomadico e tecnologico, vi si entrava e si veniva sorpresi da alcune soluzioni spaziali imprevedibili: il pavimento era organizzato su più livelli e nel livello più basso ci si ritrovava improvvisamente a rimbalzare. Una sola superficie per questa stanza, una soluzione che riproduce concettualmente lo spazio per eccellenza dell‘attitudine nomadica: la superficie, lo spazio liscio. Ad ogni tappa di un viaggio la tenda può assumere forme diverse e al suo interno non dovrebbero mancare tecnologie miniaturizzate che permettano di interfacciarsi con il mondo anche nella più remota delle sue zone.  Durante l’evento all’interno vi era un televisione sempre accesa, e la performer Angela dei Giudici costruiva e smontava in continuazione una libreria, un trasloco senza fine, un luogo singolare nella sua mente e nel suo corpo, sempre lo stesso ad ogni pausa, in ogni casa, ad ogni episodio. Monospazio era uno spazio abitativo pensato per l’esterno e per uno stile di vita flessibile, una tenda, ma si trovava all’interno: una stanza.

Exp.OSI.tion. Di seguito vi era lo spazio dell’espressione artistica, qui sembrava che d’un tratto Plaza del Desierto a Barakaldo progettata da Eduardo Arroyo prendesse a proliferare nella B2, occupando spazi per sottrazione, per svuotamento, un angolo di piazza schiantata contro una parete che dava vita a prototipi di tavoli da disegno neoplastici. Durante l’evento questo luogo nato come prototipo è diventato uno spazio interattivo funzionante dove ognuno poteva esprimersi attraverso delle vernici su una grande tela e dei fogli da disegno sui tavoli con l‘effetto di un mutamento continuo dell’impatto estetico della stanza. Questa stanza, ospitava discretamente un‘altra piccola stanza, una camera oscura, le cui pareti erano pannelli neri, una stanza onirica per la danzatrice Simona Pietrosanti per cui “ciò che è fuori è dentro“ e “ciò che è buio è pieno“ e successivamente ad opera di Progetto JDPL luogo d‘incontro tra un‘attrice di passaggio e uno spettatore di passaggio, uno spettacolo per un solo spettatore alla volta, il luogo di un‘intima confessione tra l‘attrice e lo spettatore. Questa performance era visibile dal pubblico esclusivamente attraverso uno schermo posto nella stanza dell’osservazione.

Patrz_Begira. La stanza successiva, la stanza dell’osservazione permetteva di credersi nascosti dentro un angusto ripostiglio e di poter osservare furtivamente attraverso dei piccoli fori le persone all’esterno, a ben guardare all’esterno, sul pavimento, vi erano delle indicazioni che riportavano le altezze delle persone (da 1,50 a 2 metri) e mettendosi nel punto della propria altezza, guardando in alto vi era uno specchio per osservare chi osservava da dentro il ripostiglio. Un‘ interpretazione molto interessante dell’osservazione partecipante e della situazione in cui si trova lo stesso architetto che volesse fare della progettazione partecipante. Questa stanza sembra celebrare la fine della modernità, attraverso la fine della flanerie e della sua esperienza: l‘anonimato.

Play_pause e Stanza dello sfogo sensoriale. Dopo la stanza dell‘osservazione vi è il primo dei due filtri spaziali creati dal gruppo “play_pause“. I filtri erano stati pensati per assorbire le discontinuità tra una stanza e l‘altra, spazi intermedi, luoghi residui che consentissero la continuità dell‘esperienza nel passaggio da un ambiente all‘altro. In effetti questi filtri tagliano in due la casa, ad un‘estremità il rumore, l‘espressione, il movimento e all‘altra il riposo, il sonno e lo studio. Il primo filtro “la mesa“ introduce alla stanza dello sfogo sensoriale, una camera di decompressione, in cui lasciarsi alle spalle l‘atmosfera della prima zona e prepararsi a quella radicalmente diversa della seconda zona o viceversa. La stanza dello sfogo sensoriale è una camera in cui i cinque sensi a seconda della direzione da cui si proviene si preparano attraverso uno sfogo finale a rilassarsi o al contrario attraverso una sfogo iniziale ad affrontare la superficie dell‘interno. Da qui all‘uscita un nuovo filtro, il “risveglio“, che non va pensato come un filtro per accedere alla stanza del riposo, ma nel senso contrario, per accedere dopo la permanenza negli spazi profondi dell‘interno, quelli del sogno, della riflessione e della contemplazione agli spazi selvaggi della prima zona. Chiaramente essendovi due entrate alle estremità dell‘abitazione, il percorso era possibile farlo nei due sensi, partendo dalla stanza che qui viene presentata per ultima. Ad interpretare questo sfogo sensoriale possibile nelle due direzioni vi è stata la performance ADAM (atto di amore morboso) di Fabio Ciccalè, Donato Simone e Paola Campagna nella quale “carnefici e vittime si scambiano i ruoli, si rincorrono, si avviluppano, si affrontano, si accarezzano in un continuo rimando di tensioni e rilassamenti“ (Ciccalè-Simone).

Rip.OSI. Eppure passato il filtro, pur trovandoci nelle profondità dell‘interno, il sogno continua a lavorare a favore dell‘esterno e di una socialità liminare e onirica, portando anche qui le sue tracce. Così la stanza del riposo è schermata da pannelli neri che apparentemente sembrano confermare l‘impenetrabilità dell‘ambiente dal rumore e dalla presenza dell‘estraneo, ma i pannelli hanno in realtà delle aperture nascoste attraverso le quali potervi entrare e inoltre i pannelli sono mobili, le pareti si possono alzare, lasciando solo il letto a ricordare che si tratta ancora di un ambiente in cui dormire, riposare, giocare, fare l’amore. L‘invito ad entrare, il segno che conferma che qui l‘esterno non è ancora scomparso, si ritrova già all‘esterno delle pareti che presentavano degli stencil. Dentro la stanza del riposo Giano, ovvero Giordano Giorgi e Maddalena Gana hanno performato un momento di vita quotidiana di una coppia: un uomo e una donna si svegliano, lui comincia a procedere “secondo la logica dei suoi obbiettivi“, lei rimane dentro il suo mondo onirico, “mossa da forze sotterranee danza la danza del sogno“ (Giano). Questa performance musicata dal gruppo elettro-acustico Uke ha rappresentato uno scenario che “svela il sottendere sordo di una vita dentro la vita, di una coppia sotto la coppia“. Si tratta della creazione di un mondo a partire dal tessuto microfisico ed incerto della vita quotidiana, un sottomondo “in luogo di una sottocoperta“ (Uke)

Bibliotopia. L‘ultima stanza è un‘utopia contemporanea. Se le prime utopie moderne erano figlie di un nuovo sistema di produzione basato sull‘industria, qui abbiamo un‘utopia che considera il sapere alla base del nuovo sistema di produzione della società informazionale. Se il sapere è alla base delle nostre società la nuova utopia immagina uno spazio in cui esso sia accessibile a tutti, in cui i libri, in ogni forma, materiale o immateriale, siano sempre disponibili in tempo reale ( i libri erano appesi a dei fili), un luogo silenzioso come una biblioteca, un luogo per la condivisione egualitaria dei saperi: una bibliotopia. In questo spazio in cui gli adulti sono assorti nella lettura, Fabrizio “Trick“ Sibilia dei Sebak (il gruppo di Marco Bedini che realizza elettroreading e che ha suonato nella zona palco tra la stanza dell‘osservazione e il primo filtro) ha portato dei bambini. Lontani dal mondo degli adulti anche loro hanno dato un contributo alla progettazione costruendo una casetta con i cartoni. 

Mobilità. Vi è infine da spendere parole di gratitudine al gruppo della mobilità, il gruppo dei flessibili, che non ha progettato uno spazio suo ma ha permesso a tutti i gruppi di sfruttare nei limiti del possibile le opportunità di mobilità degli ambienti offerta dall‘aula B2. L’aula è uno spazio che dava ampie possibilità di generare un mutamento degli ambienti e della loro percezione attraverso le linee dei binari sospesi sul soffitto ancora presenti in sito e il gruppo della mobilità ha fatto di tutto per avvicinare la casa progettata a un‘utopia nomade come New Babylon di Constant o come Walking City degli Archigram attraverso una riconversione ludico-costruttiva dell’antico sistema di organizzazione del lavoro del mattatoio. Questo era anche uno degli obbiettivi iniziali: la “casacorpocasa“ così come pensata nei primissimi passi di OSI doveva essere una casa mutevole, luogo espressione degli stili di vita flessibili delle nuove generazioni, un’abitazione i cui spazi si sarebbero aperti e chiusi a seconda delle necessità e dei desideri dei suoi fruitori, generando molteplici e sempre diversi limiti e soglie, spazi intermedi abitabili confinanti sia con il pubblico che con il privato. Tutto ciò che ha avvicinato la progettazione a questo desiderio iniziale degli artisti lo si deve specialmente al contributo del gruppo mobilità. Il gruppo mobilità che è stato ovunque durante la progettazione e allo stesso tempo in nessun luogo è forse rappresentato nel migliore dei modi dalla performance di teatroarchitettura e CRIQ: è‘ stato dato appuntamento ai visitatori ad un certa ora in un certo luogo, qui sono stati divisi in guide e in viaggiatori. Il viaggiatore avrebbe dovuto tenere gli occhi chiusi e fidarsi ciecamente della sua guida, la quale lo avrebbe portato in giro per gli spazi progettati, una passeggiata esplorativa lungo gli spazi della B2 che facilmente diveniva listening walk. Ogni tanto la guida invitava il viaggiatore ad aprire gli occhi per un secondo, dopo aver deciso cosa mostrargli, una serie di fotogrammi che rimanevano impressi lungo il percorso e che insieme al paesaggio sonoro e alle sollecitazioni tattili creava il tessuto di una poesia che terminava nei sotterranei del mattatoio. Non tutti i performer hanno deciso di usare gli spazi della casa progettata dagli studenti, altri hanno deciso di sfruttare degli interstizi, spazi di transito dei visitatori, perfomando in mezzo alla folla, come da.mood e manuela caraffa con la performance “senz’ombra di luogo” e come teatraria con “incubalice –occupalice” , rendendo popolati anche i bordi della  casa. 

Conclusione

Le installazioni, in un modo o nell’altro, esprimevano tutte la mutazione dello spazio abitativo contemporaneo. La esprimevano non in maniera teorica ma concretamente in quanto lo studente di architettura fa parte di una costellazione di singolarità che esprime nuovi modelli di spazio. Questo seminario sembra dimostrare che alcuni pattern dell’abitare stiano per iniziare una mutazione dal basso. In effetti non è possibile pensare che i modelli spaziali che si affermano in un’epoca siano solo il risultato delle sue dinamiche dominanti, sarebbe riduttivo credere che l’attuale organizzazione dello spazio sia esclusivamente espressione dello stile di vita dell’élite, è necessario anche guardare alle nuove urgenze che attraversano le reti sociali delle nuove generazioni flessibili e precarie. Dentro queste reti sociali si fanno esperienze che ci indirizzano verso una nuova concezione dello spazio e verso delle interessanti innovazioni delle pratiche di progettazione. Con questo seminario si è forse iniziato un percorso sperimentale che renderà possibile la conoscenza di alcuni aspetti poco esplorati delle mutazioni in atto nelle forme dell’abitare.