Nel settembre 2009 in occasione dello swtich over (il passaggio al digitale terrestre) scrissi queste riflessioni che furono pubblicate nell'area "antroposfera" della rivista on line "Newsletter Italiana di Mediologia" di cui in quel momento si occupavano soprattutto Mario Pireddu e Marcello Serra. Quella rivista che aveva accolto diversi miei interventi senza mai cambiarmi una virgola anche quando mi prendevo un po' gioco della loro linea editoriale oggi purtroppo non è più in rete. Qui ripropongo quell'articolo cui sono particolarmente affezionato e spero, vivamente, che Mario e Marcello se ne escano un giorno con un progetto editoriale altrettanto originale e ambizioso.   

no tv signal

ASSENZA DI SEGNALE

Un’esperienza agghiacciante dell’infanzia e dell’adolescenza degli attuali trentenni è stata senza dubbio quella dello schermo di una tv non sintonizzata e del suo rumore. Questa rappresentazione dell’assenza di immagini e suoni di un’epoca non era affatto quello che sembrava al primo colpo d’occhio: il nulla. Potevo fermarmi a guardarla con interesse per qualche minuto e vi vedevo sorpreso e smarrito la triturazione, piuttosto, di tutte le immagini e i suoni possibili.

Quello schermo evocava gli incubi pericolosi della notte in cui si perde fiducia nelle regole che reggono il mondo. Non solo li evocava, alle volte quello schermo lo sognavo proprio - avevo fatto in tempo a sognare anche in bianco e nero essendo passato al colore molto tardi -. Credo di non essere il solo ad aver avuto incubi del genere: uno schermo che triturava ogni immagine e suono. L’ho sempre saputo eppure me ne ricordo solo ora che alcuni canali sono stati eliminati dalla mia tv - con il tubo catodico - (ma oggi mi manca quel fondamentale rumore che contribuiva all’effetto di panico). Sono di quelli che più per inerzia e pigrizia che per ideologia o snobismo arriva molto tardi ai nuovi dispositivi, resisto fino all’ultimo momento possibile quando la pressione degli amici è tale che non puoi rifiutare un dono senza offenderli. Con il tempo ho imparato che questa mia condizione affinava le mie capacità di osservazione dei comportamenti che sono introdotti da ogni nuova tecnologia, capacità che perdo quasi completamente ogni volta che ne divento un fruitore. Con i nuovi dispositivi si acquisiscono delle conoscenze fondamentali, che prima si avevano solo indirettamente attraverso amici o la propria compagna e che si comprendevano solo filosoficamente. Il prezzo è la perdita della consapevolezza a mio avviso superiore dello straniero di questo mondo, che è però un lusso che si possono permettere solo gli gnostici. Ricordandomi di questa fondamentale esperienza che la tv di un tempo aveva introdotto ho pensato che non poteva essere solo una cosa che riguardasse me, perché nei film horror, dagli anni ’80 in poi, è stata utilizzata innumerevoli volte. Penso a Poltergeist. In questo film una bambina comunica con gli spettri attraverso lo schermo senza segnale di una tv e ne viene rapita (una tv alla fine del film viene sbattuta fuori dalla stanza dell’albergo dove la famiglia si era rifugiata). Penso a film più recenti come The Ring o s.Darko, o a certe pubblicità di MTV (o forse era All Music?). Qualcosa di mortale esce sempre da quello schermo, o vi si può entrare così come si entra nell’inferno, o esserne contagiati tanto che il proprio corpo prende a luccicare di quella terrifica danza di pixel. Penso che non sia la prima volta che succeda.

Mi viene in mente il passaggio sul teatro di Jean-Jacques Rousseau nella Lettera sugli Spettacoli, una risposta alla voce Genève di D’Alembert per il VII° volume dell’Enciclopedia, nella quale era inserita una difesa del teatro con lo scopo di convincere la repubblica ginevrina a reintrodurlo nella città da dove era stato espulso nel 1617. Rousseau proponeva di abolire il teatro e di sostituirlo con le feste, si sarebbe passati così dall’antre obscure delle sale teatrali all’en plein air della piazza. Gli spettatori sarebbero divenuti spettatori di se stessi. Ciò che muoveva Rousseau era un certo puritanesimo e non mi sorprendo se si ritrova un’idea analoga in Artaud, il quale voleva restituire al teatro quel qualcosa di pericoloso che vi è nelle feste di strada e nelle folle agitate.

Ad ogni modo la più bella profezia sulla morte del teatro, di quel teatro, così come oggi vi è la morte della tv, di quella tv, è sulla bocca del personaggio del racconto crudele di Villiers de l’Isle Adam “Sentimentalismo” del 1883: il Conte Maximilien de W. Egli è messo alle strette dalla bella giovane donna, sempre vestita di nero, Lucienne, la quale lo accusa di manifestare i suoi sentimenti in modo troppo perfetto da poter essere veri. Ella sospetta che essi siano corrotti dall’artificio e facciano difetto di sincerità e sostiene di non potersi fidare degli artisti perché sfuggono in luoghi dove non si possono seguire. Lucienne chiede spiegazioni. Il Conte è costretto a rivelare i trucchi di questi troppo romantici per guardarsi dentro. Ma prima deve assorbire il colpo: Lucienne gli dice che questa spiegazione sarà l’ultima ora che passeranno insieme giacché più tardi lei avrà un appuntamento con un altro uomo. Lui senza fare una piega, senza affettazione, le parla di uomini intelligenti senza cuore giudicati da gente piena di cuore e senza intelligenza. Dice nel suo delirio: “Spero che presto ogni grande città potrà disporre di quattro o cinquecento teatri dove i fatti della vita verranno rappresentati assai meglio di come si svolgono nella realtà, e così nessuno si prenderà più la pena di vivere. Quando vorrà appassionarsi o commuoversi, prenoterà un posto, semplicemente”. Tornato a casa il Conte con il cuore palpitante - orribile fastidio! - , si spara un colpo in petto. Villiers de l’Isle Adam non era uno scrittore qualsiasi, senz’altro era un minore nella sua cerchia, ma il genio tra di loro, almeno secondo Mallarmé. Quella frase la dice lunga sul fatto che il teatro avesse raggiunto già da tempo lo stesso stadio di una tv senza segnale. Anche qui come in Rousseau, o gli spettatori del teatro divengono spettatori di se stessi oppure, piccola sfumatura che non cambia nulla, prenotano un biglietto per andare a vedere attori che recitano la loro vita meglio di quanto non la vivano essi stessi. Come si vede il reality non è un’idea nuova. E nessuno si prenderà più la pena di vivere.

Quanto al cinema è stato Guy Debord con Urla in favore di Sade nel ’52 a introdurre gli schermi tutti bianchi o tutti neri e non è un caso che il suo amico di allora Yves Klein che proprio in quel periodo frequentava il suo stesso caffè, il Chez Moineau, sia arrivato al monocromo, tardivamente introdotto anche in Italia da Mario Schifano. E non ci stupiamo se Debord in quanto regista e uomo in guerra con il mondo delle immagini abbia più tardi sostenuto che lo spettacolo fosse un rapporto sociale mediato da immagini, intendendo che la vita autentica non è un rapporto mediato da immagini. Noi, che pensiamo che ogni rapporto sociale sia sempre mediato da immagini, riteniamo che questo teatro che diviene festa o che questa festa che diviene teatro, che gli schermi tutti bianchi, neri, blu, ecc. del cinema, i monocromi e proprio lo schermo di una tv analogica non sintonizzata non siano il nulla heideggeriano, dimensione originaria della negazione hegeliana secondo certi disgraziati, grazie al quale cogliamo l’ente, nient’affatto. È piuttosto il momento di saturazione in cui tutte le immagini di un’epoca collassano nello stesso punto. Oggi, nel momento dello switch over, al culmine di quest’esperienza, è svelato cosa celasse quello schermo, quelli che rappresentano assai meglio i fatti della vita di come si svolgano nella realtà. Era questo l’incubo: nessuno si prenderà più la pena di vivere. Guardare a lungo questo punto è provare il disagio giunto al colmo di un’epoca di cui, ora, si ha la vaga, ma allo stesso tempo certa, sensazione che sia stata superata, senza sapere l’esatto momento.