“Adesso posso dire che l'arte è una sciocchezza”, Arthur Rimbaud, Minute di «Una stagione all'Inferno», 1914, Nouvelle Revue Français.

Foto di Chiara Sestili - serie: ODIO LUTHER BLISSETT.

ARGOMENTAZIONI SEMPLICI A FAVORE DELLA SOPPRESSIONE DELL’ARTE

1. Vogliamo tentare l’impossibile, argomentare alcuni motivi ragionevoli e semplici non tanto contro l’arte ma per la sua soppressione definitiva, senza utilizzare nella nostra cassetta degli attrezzi Hegel, i situazionisti o i saggi fondamentali del movimento anti-arte. È chiaro che siamo in debito con tutti loro, ma vorremmo apportare nuovi ragionamenti a tale discorso, non saranno originali, ma essere originali si sarà compreso non è il nostro scopo. Faremo appello, magari, ad autori meno prevedibili o conosciuti, giusto per dar più forza alle nostre argomentazioni. Solitamente la soppressione dell’arte è invocata a favore di una creatività generalizzata, ma cosa accade se è messa in questione la creatività stessa?

2. “Creatività” è stata per lungo tempo considerato un talento “misterioso” finché la psicologia cognitiva non ha tentato una sua “vivisezione”, arrivando alla costatazione piuttosto banale che essa non fosse innata ma dipendesse dall’apprendimento e dal contesto sociale e culturale. Chi si prefigurava una creatività generalizzata viveva in un’epoca in cui il mistero del talento creativo aveva giù subito duri colpi e in cui per la prima volta si poteva ambire a che tutti, senza esclusione, vi si adoperassero. Naturalmente una vita associata che preveda una tale attività creativa come prerogativa di ciascun individuo e per un tempo considerevole della sua giornata non avrebbe potuto che disperdere la leggenda del talento creativo nella pratiche quotidiane e con esso il mito dell’arte e della sua conservazione.

3. Ma immaginate una vita dedita quasi esclusivamente all’attività creativa, non trovate sia una bizzarra forma di nuovo dispotismo? Una simile vita associata si sarebbe ovviamente liberata dal lavoro, ma costringere alla creatività generalizzata la popolazione del pianeta significherebbe avere davvero poche idee su cosa poter fare con il tempo a disposizione e presterebbe il fianco alle dissidenze lavoriste, quelli insomma che vanno in angoscia se non fanno un lavoro utile. E se uno desiderasse oziare, festeggiare, viaggiare, fare l’amore, giocare, fare sport, eccetera?

 

4. Noi riteniamo che niente si crei davvero, che il verbo “creare” sia fuorviante e con esso il relativo talento. Dire che si sta creando qualcosa allude al fatto che prima vi era un “nulla”, ciò che viene creato è tale solo se prima c’era un nulla, ma pensate davvero che il nulla esista? Se esistessero nicchie di nulla sarebbero qualcosa e se esistesse il nulla davvero non staremmo qui a scrivere, il nulla pretende tutto oppure è un simpatica chimera cui si può solo credere per fede. Non solo occorre credere che vi sia una nicchia di nulla da cui far sorgere qualcosa ma occorre credere che quel qualcosa sia generato da una scintilla divina, qualcosa a sua volta dovrà pur innescare la generazione del qualcosa, non vi possono essere in questo genere di processi sviluppi senza un qualcosa prima che per definizione “non” appartiene a colui che crea. Infatti se appartenesse a colui che crea egli sarebbe come Dio e non a caso gli artisti sono considerati quasi o del tutto delle divinità, oppure credere che partecipino più di altre creature alla grazia divina e che siano degli eletti della genesi del cosiddetto, non a caso, “creato”. Liberi di crederlo e non staremo qui a farvi il solito discorso sul fatto che tali artisti siano più eletti dal mercato dell’arte che non dallo Spirito Santo.

5. Si sarà capito che nulla si crea dal nulla e che se si crea da un qualcosa non è creazione. Di cosa si tratta allora? Di sequenze, nient’altro che di sequenze, di selezioni, nient’altro che selezioni, di assemblaggi, nient’altro che assemblaggi. Tuttavia con una qualità della propria attività: il despejo o se, si vuole, una certa sprezzatura che implica allenamento alla perfezione e all’eccellenza e capacità di nascondere tale preparazione preliminare, quindi “perfezione della perfezione” che come vedremo, contro la tradizione della sprezzatura stessa, ha poco a che fare con l’arte ma più con un saper fare con noncuranza e disinvoltura.

6. Il primo motivo per cui si tratta di “sequenze”, e usiamo questa parola estensivamente, è che quando si producono “quegli insufficienti costrutti intermedi” (Unger) che chiamiamo “arte” li generiamo a partire da materiali o idee preesistenti. Ogni opera cosiddetta d’arte non è mai una singolarità, s’inanella con tutto ciò che l’ha preceduta, sia nell’immediato che sulla lunga durata, attraverso le generazioni. Chi pensa di sbarazzarsi in un sol colpo di tutta la storia dell’arte con un capolavoro è solo un idiota anche qualora apparentemente vi riuscisse, perché vi sono state delle sequenze prima di lui che lo hanno eventualmente portato a realizzarlo, senza le quali l’ambizione personale non può nulla se non contristare l’artista.

7. Abbiamo introdotto il termine “sequenza” per evidenziare come qualsiasi cosa prodotta come “arte” si concepisca a partire dall’insieme dei materiali e delle idee dell’epoca dell’artista e dall’insieme dei materiali e delle idee di tutte le epoche precedenti. Si potrebbe dire che non sia l’artista che crea l’opera d’arte ma che sia l’opera d’arte che trova il suo imbecille disposto a perdervi il proprio tempo, ovviamente se c’è tanta gente disposta a perdere tempo nel farsi imbeccare dalle sequenze di “oggetti artistici” che portano all’opera è perché tali individui del tutto irrecuperabili sono salvaguardati a parte della vita associata come esseri umani “speciali”. Chi poi senza essere salvaguardato ambisce allo status di essere umano “speciale” cercando di trovarsi anche lui su qualche sequenza di “oggetti artistici” significativa o meno, è solo un individuo che ha morso l’esca del mercato dell’arte senza rendersi conto che essere definiti “speciali” è praticamente un insulto alla persona e alla sua intelligenza. Gli “homo specialis” o “homo singularis” sono una declinazione morbida dell’“homo sacer”, degli essere umani che sono reclusi in un campo di contenzione all’aria aperta, in cui tutto è virtualmente possibile e quindi niente davvero reale, un campo per coscienze infelici. Vive senz’altro meglio il resto della popolazione, anche qualora fosse in miseria, perlomeno non vive in un mondo rovesciato senza fine.

8. Dicevamo anche “selezioni”. Per “selezione” intendiamo qualcosa di diverso dalla “sequenza”, essa è la convergenza di tutte le idee dell’epoca in un solo individuo, idee che si fanno strada attraverso una cooperazione e una competizione sociali linguistiche su scala planetaria psichicamente sanguinarie, che man mano esclude esseri umani. È chiaro ancora una volta che l’individuo cui arriva l’idea di questo immenso gioco di cooperazione e competizione è da una parte stato statisticamente graziato molte volte dal processo di esclusione e selezione, dall’altra non è semplicemente uno che ha vinto la lotteria è uno che ha giocato per vincerla e quindi è passato sopra molti cadaveri, è astuto e furbo, tutte qualità che non addicono per nulla, per così dire, all’Iperuranio.

9. Non è la solita trovata evoluzionista sulle idee come “memi”, le idee non circolano scorporate dagli individui e non è un caso di talento il primo che le intercetta. Le idee sono continuamente elaborate dagli individui e comunicate ad altri individui che le elaborano a loro volta, il processo è di elaborazione collettiva su vastissima scala e non semplicemente di circolazione come se esse fossero lì pronte per coloro che hanno delle antennine che altri non hanno. È anche per questa ragione che le idee non dovrebbero appartenere a nessuno e qualsiasi loro appropriazione individuale è indebita o il risultato di una guerra psichica che mortifica il resto della popolazione umana. Peraltro, ottenere l’idea strategica per un’opera d’arte, oltre a condannarti ad essere uno psico-killer assetato di sangue e un imbecille, significa che in qualsiasi modo la realizzerai, bene o male, essa non ti appartiene, ma appartiene all’umanità e il suo valore economico dovrà essere sempre zero, ovvero nel caso l’umanità non decidesse di sopprimerla, dovrebbe essere destinata al dono o alla fruizione gratuita e in nessun caso scambiabile su un mercato.

10. Abbiamo visto che l’opera d’arte attraverso una sequenza di “oggetti artistici” diacronica trova il suo utile idiota, ma non solo abbiamo visto che sul piano sincronico si tratta di un processo di cooperazione e competizione, escludente e selettivo, su scala mondiale, una sorta di tempesta dei cervelli che riguarda tutti e di cui beneficia un individuo soltanto. Ora, chiediamoci cosa accade quando tale individuo abietto viene imbeccato dalla sequenza di “oggetti artistici” e ottiene un’idea collettiva: egli crea? No, assembla. Egli a quel punto dovrà metterci del suo e ancora una volta ciò che si ritiene sia suo non è suo. Non sarà incorporata la sua soggettività nell’opera d’arte ma solo la sua forza-lavoro, perché ciò che egli realizza davvero è un lavoro: assemblare parole, colori, materiali, idee trite e ritrite con l’idea nuova che gli è giunta, eccetera. Egli è solo un dispositivo della soggettività collettiva. Soltanto un identitario può pensare che l’artista abbia una sua identità, che possa incorporare addirittura la sua soggettività nell’opera, in realtà ciò che è avvenuto, se è andata bene, è che si creata un altro anello della sequenza di oggetti artistici che invoca altri individui imbecilli che ne continuino il processo.

11. Ora, il fatto che l’assemblaggio sia il risultato di una forza-lavoro non significa che debba restare per sempre in uno stato di attività alienata e ignobile, qualcosa la salva ed è il “despejo”. L’artista oggi ha una sola possibilità per ottenere rispetto da gente come noi, deve essere allenato, disinvolto, noncurante e sapere nascondere la fatica del proprio lavoro, saper nascondere se stesso e la propria abilità nel momento stesso in cui lo si mostra. Ma per chiarire meglio ciò che intendiamo citeremo Baltasar Gracián: “Perché si impadronisce del gusto è stata detta gancio, perché è impercettibile, grazia, perché è vigorosa, brio, perché è galante, disinvoltura, perché è facile, noncuranza: ché tutti questi nomi glieli hanno cercati il desiderio e la difficoltà di definirla. Le si fa offesa a confonderla con la facilità: la lascia molto indietro, e sorpassa la bizzarria. Ben ogni disinvoltura presuppone spigliatezza, ma vi aggiunge perfezione”. Il “despejo” è pensato come una qualità dell’individuo innata, invece noi riteniamo che si apprenda e che sia un dovere di tutti apprenderla se si vuole non solo apprezzare davvero l’arte per quello che è ancora oggi ma andare oltre, fino alla sua soppressione. La soppressione dell’arte è possibile solo attraverso una vita associata che abbia appreso a insegnare il despejo alle nuove generazioni.

12. Si sarà compreso che le nostre argomentazioni a favore della soppressione dell’arte non provengono dal di fuori dell’arte ma dal suo interno. Non da una spiegazione scientifica “divergente rispetto al movente artistico” come ci dice Unger, ma unicamente dal cuore dell’arte stessa, da una “pulsione convergente”, “capace di superare in intensità la più ampia realizzazione artistica”. Si tratta di spingere il movente artistico oltre se stesso, di spingere la tendenza artistica così lontano da farle superare i limiti concettuali del’‘arte’”. Con Unger pensiamo che “non da un’energia che neghi l’intenzione dell’arte, ma unicamente e proprio dall’energia che la abita e che, contemporaneamente, la trascende, capace dunque di provocare il passaggio dall’immagine alla realtà, può provenire infine quella capacità di soggiogare le forze impegnate nella produzione di quegli insufficienti costrutti intermedi ( che chiamiamo “arte”) - e di raggiungere attraverso la loro accumulazione il punto di cristallizzazione di una – ‘seconda’ - realtà. Per coloro che ne accetteranno la prospettiva, la forma concreta della soppressione dell’arte assumerà i tratti della messa al bando rituale di tali opere e valori”.

13. Tale seconda realtà è ciò che nel “despejo” è chiamata distinzione della distinzione, perfezione della perfezione, ovvero se i pregi adornano la natura, queste adornano i pregi. Non il bello né il sublime, ma il bello del bello e il sublime del sublime. La seconda realtà è la vera destinazione del livello intermedio in cui si trova il movente collettivo per l’arte di oggi, il vero obiettivo da sempre cui l’arte stessa si muove, ovvero completarsi e poi sopprimersi. La sequenza di “oggetti artistici” non finisce ma diventa da discreta ad analogica, senza soluzione di continuità, perché le opere vengono assemblate e distrutte o donate in continuazione senza alcun feticismo creativo. Sarà comunque possibile documentarle, anche se non vi saranno gallerie e musei, ciascuno avrà accesso libero e gratuito alla riproduzione digitale dell’opera e alla possibilità di stamparla in 3D a casa propria se possibile e voluto.

14. Il nostro modo di argomentare potrebbe far pensare all’ennesima teleologia, ma non è affatto così, anche se parliamo di destinazione e obbiettivo dell’arte, essa potrebbe benissimo non arrivare ad alcuna fine o morte, non è iscritta in essa alcuna finalità verso la sua soppressione. Semplicemente in questo momento storico la sua soppressione è più desiderabile che non la sua continua umiliazione e il danno che la presenza degli artisti e dei creativi recano all’umanità. Piuttosto essendo la soppressione desiderabile è necessaria un’azione collettiva per renderla possibile e se ne dovranno incaricare gli artisti e i creativi stessi, perché tale azione non può che venire dal cuore di ciò che oggi chiamiamo ancora “arte” e “creatività”. Sarà nel loro interesse non compromettersi con una tale crimine contro l’umanità e volgersi verso il suo superamento. Quando comprenderanno che ciò che chiamano “Duende” o ispirazione ha un radicamento profondo negli istinti più torbidi e laidi dell’homo sapiens sapiens non potranno che ambire, pretendere ed esigere una forma superiore di espressione di sé.

15. Non desideriamo nemmeno invocare la critica del mercato dell’arte o le argomentazioni sull’arte come nemica del popolo. Ci stiamo muovendo con indipendenza intellettuale e vogliamo produrci il nostro percorso perché siamo stati chiamati indebitamente troppe volte “artisti”, “creativi” o “poeti”. Il mercato dell’arte non è la causa dell’esistenza dell’arte né della sua decadenza o corruzione, non vi è alcuna decadenza o corruzione indotta, l’arte è decadenza e corruzione per definizione, in quanto stadio intermedio tra la scoperta e le libertà spirituali e dei corpi. Il mercato dell’arte piuttosto fa affari attraverso l’imbecillità degli artisti producendo per loro una narrazione di comodo semplificatrice, il concetto di genio oggi è molto banale rispetto a quello che ci si poteva aspettare da testi come “Il Cortegiano” di Baldassare Castiglione e il loro status, quando va bene loro, è quello di una qualsiasi star del sistema d’intrattenimento. La critica del capitale e del valore dell’opera d’arte non è il nostro scopo, pur se riteniamo di aver offerto alcuni spunti.

16. Quanto allo slogan “arte nemica del popolo” e ai relativi autori che ne hanno approfondito le ragioni, pur se spesso condivisibili, riteniamo si tratti di un eufemismo rispetto alla gravità di ciò che arreca l’arte non tanto al popolo, ma all’umanità tutta. L’arte è una delle grandi questioni del nostro tempo, tale e quale a quella del cambiamento climatico, della sovrappopolazione, dell’alimentazione della popolazione del pianeta, della violenza di genere e delle libertà delle donne nel mondo e dell’appropriazione privata da parte delle multinazionali dei beni comuni dell’umanità. Non comprendiamo proprio perché mai l’ONU non si sia mai preoccupata di frenare la diffusione della creatività e della produzione artistica nel mondo, ma anzi criminalmente la promuova. È una vecchia abitudine pensare che essa sia bella e buona e faccia solo del bene, presto o tardi, come per certi alimenti, si giungerà a un tale livello di intossicazione e inquinamento da arte che si svilupperanno bizzarre intolleranze, di cui abbiamo i primissimi casi dei quali quello di Piero Cannata è uno dei più studiati in quanto personalità prefiguratrice la soppressione dell’arte e la futura umanità.

17. Abbiamo premesso all’inizio che non avremmo utilizzato le argomentazioni dei situazionisti in queste tesi, tuttavia va evidenziato come i loro primi saggi, ovvero “Il Manifesto per la Costruzione di Situazioni” e il “Formulario per un Nuovo urbanismo”, quando avevano già optato quasi del tutto per l’abolizione della produzione artistica, fossero centrati sullo spazio, in particolare la psicogeografia, l’architettura e l’urbanismo. Ora, noi riteniamo che oggi anche l’architettura e l’urbanismo siano viziate da un eccesso di arte e creatività e non siano più di nessun aiuto. Tuttavia, lo spazio ci è necessario per fare un salto indietro al paleolitico, perché riteniamo che tutto ciò che è stato espresso in modo “estetico” non fossero altro che riferimenti allo spazio, alla geografia. Non vi è né arte né creatività, ma necessaria capacità di elaborare segni in quanto riferimenti geografici per mappare il territorio e rendere più facile i propri percorsi per finalità di caccia, raccolta, incontro ed esplorazione.   

18. Non è mancato chi abbia voluto conservare l’esistente e salvare l’arte producendo un falso movimento dal suo stadio intermedio verso la seconda realtà di cui scrive Unger. Si tratta di coloro che hanno proposto un’arte relazionale, ovvero l’arte che non mostra altro che la vita stessa ma in una galleria o in un museo. No, questo falso movimento vuole raggiungere la seconda realtà cui si arriva solo trascendendo l’arte senza trascenderla davvero e presentando tale realtà, perfezione della perfezione, in forma fittizia.  Oppure, ancora, peggio, vi è chi afferma che basta dirsi artisti per esserlo, che coloro che dicono di esserlo lo sono. Abbiamo ascoltato individui parlare di arte in modo davvero convincente e, per utilizzare una parola squalificata, “geniale”, salvo poi vedere le loro opere e restare sorpresi dalla meschinità, dalla pochezza e dalla mancanza di “despejo” che mostravano. Abbiamo sostenuto che siamo disposti a rispettare solo quegli artisti che mostrano “despejo”, ovvero la tensione emotiva verso la soppressione dell’arte. Solo gli artisti che nascondono l’arte e si auto-negano ci interessano e siamo disposti a considerarli con la categoria obsoleta di “artisti”, proprio il contrario di coloro che la esibiscono e si auto-dichiarano in quanto tali.  

19. L’impegno sociale e politico dell’artista non lo salva affatto dalla sua condizione di “homo singularis”, ovvero di imbecille. La sua ribellione contro il capitale con i mezzi dell’arte lo rendono ancora più ridicolo di quegli artisti che non si ribellano affatto al capitale. L’arte se deve essere giudicata non va giudicata dall’ideologia del suo assemblatore, ma dalla qualità delle reti di cooperazione e competizione per le idee su vasta scala che convergono su di lui. Egli potrà anche essere uno dei nostri, un marxista libertario, un lettrista, un situazionista, un compagno della critica radicale, un autonomo, ma se ambirà a essere un artista e a realizzare capolavori sarà sempre una mela marcia, sempre uno che cammina sui cadaveri. Solo coloro che tendono verso la soppressione dell’arte possono ricevere il nostro apprezzamento.  

20. Gli artisti sbagliano sempre e non c’è via d’uscita a questa loro condizione, solo il passaggio alla soppressione della loro attività principale li potrà salvare dal giudizio inappellabile del futuro. Solo la propria auto-negazione li porterà a riconciliarsi con l’umanità e a liberarsi della propria coscienza criminale. Solo coloro che si uniranno alla nostra prospettiva di soppressione dell’arte potranno accedere a un mondo libero dal lavoro. Non dubitiamo che ci sia il rischio di una restaurazione un giorno dell’arte e della figura dell’artista, ma tale restaurazione se mai avverrà sarà invocata dall’umanità stessa e sarà il momento di tornare all’apprezzamento di quello stadio intermedio tra la prima realtà e la seconda di cui scrive Unger. E se sarà invocata ci saranno buone ragioni allora per difenderla, ma non è questo il tempo: oggi l’arte va combattuta come fosse una calamità naturale, come fosse una questione di una tale gravità e di un tale pericolo per il pianeta che tutte le donne e tutti gli uomini di buon cuore dovrebbero mobilitare ogni forza possibile contro di essa prima che sia troppo tardi.