La mostra di street art "Outdoor" e i relativi party all’ex dogana di Scalo San Lorenzo segnano un punto di non ritorno da due punti di vista, da una parte hanno normalizzato nella scena romana una forma d'arte clandestina in un modo che neanche i musei nonostante i numerosi tentativi erano riusciti a realizzare, dall'altro ha risvegliato l'attenzione su un'area da tempo devalorizzata, secondo una modalità che asseconda le teorie urbanistiche che spingono per rendere competitive le città nel mercato globale attraverso un uso strumentale della creatività, con il fine di generare "identità urbana". La parola "clandestino" è sostituita dalla parola "esclusivo", da una pratica anti-identitaria sia nella realizzazione sia nella fruizione si ritorna a una pratica identitaria e responsabilizzante, l'anonimato del pubblico (e dello spazio pubblico) che è il bello di una metropoli è messa a rischio da una gestione dello spazio tipica degli spazi privati.  Qui vi racconterò le mie sensazioni e la mia esperienza, una sorta di diario, una forma che mi sembra più diretta per descrivere ciò che penso stia accadendo alla street art.   

nemo

Quando sono arrivata a Roma anni fa, per diversi mesi ho cercato lavoro e spostandomi in giro per la città ho avuto l’opportunità, nonostante il disagio di non avere un reddito, di esplorarla come mai ho potuto fare di nuovo in seguito. Ho camminato tantissimo, preso spesso la mia auto scassata e girato tutte le periferie. Quando avevo un colloquio prendevo sempre l’occasione per girarmi il quartiere dove era lo studio, mi avventuravo in vicoli, cantieri, centri commerciali, piazze spaesanti, ma mai mi sono persa davvero, perché Roma è una città che ti fornisce continuamente, anche nei luoghi più anonimi, un sistema di ancoraggio. E se in centro storico i monumenti, le piazze, le edicole votive, sono il sistema che ci permette di sapere sempre dove siamo, in altri luoghi per me in quei giorni erano gli stencil pop di STEN, i roll up della crew Black Hand sul GRA e sull’Aurelia, il collo lungo delle giraffe di HOGRE che spuntava su un muro dietro a un cespuglio a indicarmi dove mi trovavo. Il sentimento che sempre si accompagnava ad una di queste scoperte è un sentimento che è spiegato bene dalla parola inglese onomatopeica “awe”,  termine che riprendo dal lavoro dell’artista Jonathan Hynd,  cioè un misto di stupore, vertigine e meraviglia per il gesto, a volte audace, basti pensare agli assurdi roll up di Benji e Dem sui ponti della tangenziale est all’altezza di Viale Libia, alla bellezza di alcuni interventi per me insuperabili anche se semplicissimi come l’ispettore Callaghan di Sten vicino la Facoltà di Sociologia, e per l’incredibile gratuità dell’opera. In quel periodo in cui la street art era considerata ancora vandalismo non mancava anche chi praticava sistematicamente un collezionismo vandalico, gli street artist se ne devono essere accorti ed è già da un po’ che è quasi impossibile trovare le “opere” su sportellini dell’Acea e altri supporti rimovibili.

Ragionai addirittura sul descrivere il fenomeno su una mappa, di realizzare un atlante delle “opere” e di caricarla in rete ad uso di tutti, ma non lo feci perché pensai, e tutt’ora sono convinta che allora fosse giusto così, che descriverne la distribuzione sul territorio e la densità in alcuni punti piuttosto che in altri, sarebbe sì stato utile per gli psicogeografi ma anche strumento di controllo, prevenzione e repressione per chi a queste pratiche si opponeva considerandole vandalismo. Oggi la situazione è completamente cambiata, c’è molta più tolleranza da parte degli abitanti e talvolta una legittimazione istituzionale strumentale di queste pratiche che vengono utilizzate nelle loro forme più addomesticate come dispositivo di valorizzazione di aree della città. 

Oggi chiude con un party la mostra “Outdoor” all’Ex-dogana di Scalo San Lorenzo, curata da Nu Factory. Sono andata a visitarla con mia figlia domenica scorsa, è una mostra che ha avuto un grande successo, è stata visitata da tante persone, è stata luogo di feste col pieno di gente, in un caso ad Halloween con dei disordini all’entrata per l’overbooking, l’impreparazione degli organizzatori e la voglia di spingere al massimo questo business temporaneo, disordini che non hanno avuto la giusta risonanza perché dai social network è sempre troppo semplice eliminare le critiche e moving forward. La mostra è stata visitata anche da persone che non erano mai andate a un’esposizione di street art e che si sono lasciati stupire, dalle installazioni e dal luogo. Io sono andata lì con tutto il mio carico di aspettative e ne sono uscita con un po’ di delusione mista ad amarezza. Ci ho riflettuto su in questi giorni interrogandomi sul perché l’“awe” fosse sparito, e sono arrivata ad una conclusione, che voglio condividere.

E’ necessario portare avanti una critica sull’uso della street art come strumento di valorizzazione e riqualificazione, consapevole o no, del mercato immobiliare. L’Ex Dogana infatti, non ora ma da tempo, è stata considerata come un “asset finanziario” e i progetti di valorizzazione che si sono susseguiti negli ultimi anni non hanno avuto un esito per la crisi dell’immobiliare e la conseguente difficoltà di mettere sul mercato un lotto sì strategico ma incuneato tra numerose infrastrutture e quindi di difficilissima ridestinazione. Tra le tante ipotesi, vi era anche quella della totale demolizione prima della rivalorizzazione e dell’interesse che Outdoor ha prodotto, risvegliando sia l’attenzione degli attori immobiliari che il conflitto sociale intorno a questo spazio. Tuttavia non è di questo che per ora voglio parlare, qui mi interessa capire perché non ho percepito l’“awe” nonostante i magazzini in cui si è svolta la mostra ti riportino indietro allo sferragliamento dei treni, ai depositi di merci e al lavoro quotidiano degli operai, solo al metterci un piede dentro.

Un motivo, ritengo, è che questa sia una mostra per borghesi che vogliono essere stupiti e cioè è una mostra che è sicuramente piaciuta a chi deve sempre distinguere tra un tipo di street art bella, di valore, che può essere accolta, e un tipo di street art che non lo è, che è vandalismo, che va rifiutata e sempre repressa.  Ma chi è che definisce chi sta dentro e chi sta fuori? Chi è che disegna quella linea di separazione tra ciò che ha valore e ciò che non ne ha? Ovviamente il mercato, che sia il mercato dell’arte o il mercato immobiliare poco importa. So che alla mia posizione i gatekeeper dell’arte ormai sono sordi, perché non sono certo la prima a esprimerla, so che molti di coloro che vengono definiti street artisti neanche si pensano come tali, ma per me la street art è la street art, per me i carotoni di Nemo e le sue scritte roll up “nemo tibi amat”, o quelli criptici delle crew più disparate di cui non so neanche il nome, possono non piacerci, possono disturbarci ma fanno della città un luogo desiderabile molto più di eventi come Outdoor che assecondano le retoriche dell’” identità urbana” e della “città creativa”, retoriche che sono solo parole d’ordine per rendere più competitive e attraenti per il turismo le città nel mercato globale.

La mostra Outdoor è un dispositivo che definisce un confine tra chi sta dentro e chi sta fuori, lo ha fatto nei party, ma lo ha fatto soprattutto con la mostra. Ma dentro e fuori cosa? Dentro il mercato e fuori dalla street art del business.  

Le pratiche artistiche urbane, tutte, hanno tre peculiari caratteristiche: il gesto, la situazione e la gratuità. Questi tre elementi messi insieme concorrono a produrre il sentimento di “awe”. Dunque guidare l’auto e trovare su una decadente centralina dell’Enel degli anni ‘50 un ambiguo roll up di Black Hand non può che generare nei più attenti e aperti un sentimento di stupore che porta con sé tante domande, anche banali, del tipo “come ci sono arrivati”? “Da dove sono arrivati”? “Che cosa vogliono dire con quelle strane parole”? Insomma tutto sommato qualcosa di simile all’avvistamento di un Ufo, di un gesto nello spazio non identificabile e non identitario.

In più questo tipo di pratiche genera un ancoraggio mentale allo spazio, ci indicano una distanza, un luogo, un contesto che difficilmente dimenticheremo, e ogni qualvolta ci ricapiterà di passare di là penseremo “ok, siamo a metà strada tra Roma e Orbetello”, oppure se dovremo indicare la strada a qualcuno potremmo dire “arrivi ad una grande piazza dove trovi delle impalcature sulle quali è disegnata una carota gigante, ci sei, sei a Porta Maggiore, lì giri a destra, poi in fondo alla strada giri a sinistra, ti trovi sulla destra i graffiti della ferrovia e ci sei, sei sulla Casilina…”, e così via.

Quel gesto avrà per me valore, perché è in quel preciso luogo, perché incarna l’intenzione clandestina di farlo proprio lì, perché mi aiuta ad orientarmi nello spazio, a immaginare la città in una forma più articolata e sensuale, perché rimarrà lì per me gratuitamente e generosamente, si ripresenterà tutte le volte che passerò da lì.

Insomma allora “Outdoor” cos’è? Dov’è finito il gesto di pirateria intenzionale e audace? E poi perché proprio in spazi come l’ex Dogana con tutte le tutele del caso e non in un altri luoghi più inclusivi e aperti? In fondo una mostra di street art se vuoi puoi portarla e distribuirla dove e come vuoi. E soprattutto perché non generosamente donata a chiunque? Si pagava il primo ingresso e poi se ci si registrava si poteva tornare gratuitamente ma non nei giorni degli eventi, io ho pagato ma non mi sono registrata. Perché dovevo offrire gratis i miei dati sensibili, cosa che equivale a pagare perché i dati sensibili producono ricchezza, perché farlo poi per la forma d’arte meno identitaria che c’è? E anche per accedere ad alcuni dei party se volevi essere dentro, ancora, dovevi offrire loro gratis dati sensibili. Che motivo c’è di raccogliere informazioni sul pubblico e i partecipanti se il bello di una metropoli è proprio l’anonimato? “Outdoor” è una mostra di arte contemporanea molto convenzionale, alle opere di arte che sono state esposte mancano alcune parti fondamentali che si sono perse con la loro internalizzazione (Indoor), che non è un semplice dispositivo spaziale, come se un Lucio Fontana avesse lasciato in una galleria solo la lama per tagliare la tela, e il resto? Il gesto?

Per stasera è meglio prendere l’auto, andare in giro e imbattersi magari sul lungotevere negli osceni manifesti di Artcock.